Piccolo manuale di Umanesimo ateo

Il perché e il percome di una vita senza dèi.

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Intro
Prima parte / Un leggerissimo cambiamento
1. Allora, chi è Dio?
2. Quali prove abbiamo che esiste un dio?
3. Che bisogno c'è di credere?
4. Ma se Dio non c'è, come può l'uomo essere buono?
5. In cosa credere? Il cuore dell'Umanesimo
Seconda parte / Cosa dice la Chiesa
6. Perché ci battezzano?
7. A che serve la prima comunione?
8. Un dio così ci rende schiavi

9. Il male, il peccato, il sesso
Terza parte / Quello che la Chiesa non dice
10. Le bugie della Bibbia
11. Credenze cristiane tutte da verificare
12. I brutti esempi di chi predica il Bene
Help & Tips / I trucchi della comunicazione
Finale
Appendice A / I comandamenti: 10 …o 40?
Appendice B / Il peccato originale
Bibliografia

3. Che bisogno c’è di credere?

A questo punto, potresti chiederti: ma perché tante persone ci credono, a questo Dio? E avresti ragione. Io lo trovo buffissimo. A volte un po’ triste. Mi spiego meglio.

Su questa terra si trova tutto il necessario per vivere bene.
Certo, ok, vivere non è sempre facilissimo, qualche volta è bello, altre volte meno… E quando è proprio brutto se ci fosse un supereroe potentissimo o un Dio ad aiutarci non sarebbe male, sì. È obiettivamente incoraggiante, motivante, fortificante – come sapere che l’uomo più potente in città sta dalla nostra parte e possiamo contarci proprio quando ne abbiamo bisogno… Ma il punto è che non è realmente mai corso in nostro aiuto: è la sicurezza nel crederci che sblocca la nostra energia vitale.
Siamo noi, solamente noi, a decidere come va la nostra vita. Le cose ci vanno bene? Siamo stati in gamba. Le cose ci vanno male? Possiamo migliorare. Abbiamo bisogno di certezze e ispirazione? I nostri maestri e mille idee di dio sono lì a darci coraggio. È tutto naturale! Dio non c’è, o forse sta solo ben nascosto a guardare. Per noi è indifferente. Sei d’accordo?

Ma se Dio non c’è o non si fa vivo, allora perché credere che esista, che si interessi a noi, che sia realmente presente nel riflesso di una nostra scelta?
Ecco, tendiamo a credere a cose che non esistono per molti motivi: perché ci dà piacere, perché ne abbiamo paura, o perché siamo non sciocchi, ma ingenui e impressionabili, di poco spirito critico… E ancora: perché ne siamo smisuratamente affascinati, perché ci danno sicurezza e speranza (ad esempio contro la paura della morte), o la falsa tranquillità di conoscere l’ignoto e controllare la casualità della vita.
Perché ‘lo fanno tutti’, perché è più comodo, per abitudine, per ignoranza; per talune fraintese nozioni scientifiche, o fuorvianti ‘sensazioni interiori’; per senso del dovere, per disperazione, per ipocrisia… Per ansia di gioia, di giustizia, o per timor di Dio: immagina quanto seducente è l’idea del paradiso, e quale devastante peso può avere l’idea di un dio giudice e del suo inferno… Idee, credenze, convinzioni, pensieri, cui noi stessi diamo vita, vigore e autorità, fino a vederle separate e altro da noi.
Si può credere perché condizionati a farlo fin da piccoli (probabilmente la causa più forte e diffusa, a cui tutte le altre restano legate), perché poi non si ha coscienza di valide alternative, perché si continua a pensare con la testa altrui o non si pensa, perché acclamare santi e dèi giustifica o distrae dalla propria mediocrità; o perché senza un dio non si crederebbe più in sé stessi e, in balia ‘del mondo’ si diventa incapaci di darsi uno scopo nella vita… Quando si ha tanta sete si può vedere Dio come una fresca sorgente, senza essere in grado di capire che è un miraggio. Potenza del credere.

In un senso più positivo, avere un amico che ti ama, ti conosce, ti ascolta, ti assiste, è un grande aiuto interiore, persino una terapia esclusiva. E crederlo è meglio di niente, quando quel qualcuno ci manca. C’è anche chi fa riflessioni ed esperienze e chiama ‘Dio’ quello che trova, a volte accettando la dottrina di una certa religione (magari in parte), a volte no.
I motivi sono molti. Fra tutti, trovo che chi arriva alla fede dopo una ricerca personale e indipendente può almeno chiamarsi libero pensatore a buon ragione.
Gli altri motivi invece sono una scappatoia. A volte utile, a volte rovinosa, ma sempre una scappatoia.

Pensare che lassù c’è un dio che ha potere di salvarci, è rassicurante. Immaginare che, proprio quando ci sentiamo più soli, ‘Gesù ci ama’, subito consola… E non è sempre facile dire a sé stessi: «Ci voglio credere, ma NON HO PROVE che sia vero». Il bisogno di salute e felicità, di protezione ed equilibrio, soprattutto in un momento disperato, quando la terra ci manca sotto ai piedi, può essere così intenso da farci immaginare un dio come soluzione globale. Uno guarda le miserie umane e pensa «Ah! Se esistesse un dio onnipotente…». È comprensibile. Tutto questo può fare convinti, proprio convintissimi, che le intuizioni, le scelte, le strade che percorriamo siano state un suo consiglio, e farci persino avere sensazioni fisiche (brividi, emozioni, un improvviso senso di pace, di fare la cosa giusta, ecc.). E, si può pensare, se lo sento così bene, così tanto, così nel profondo, deve esistere. Uhm, no… figuriamoci. Sarebbe come se quando vedi la foto di una pizza e ti viene l’acquolina – puf! – la pizza compare.
Succede che, come una situazione ci influenza da fuori, anche lo stato d’animo e le aspettative si riflettono sul nostro corpo, producendo reazioni anche forti. Psicologicamente, non è un mistero. Ma non basta la ‘sensazione che sia vero’ – o un intenso desiderio, o la speranza, e neanche la necessità – per rendere la cosa reale. Sarebbe bello, ma non è così. La pizza non cade dal cielo, bisogna acquistare gli ingredienti, impastare, farcire, cuocere… o almeno andarsela a comprare!
Ok, certo, dio forse non si scomoda per una pizza. Magari però lo fa per cose più importanti? Beh, non si può nemmeno dire che si sbrighi a porre fine alle guerre o a curare le malattie, no.
Ora, chi cura le malattie? Chi può far cessare le guerre? Chi può farci crescere e vivere più felici? Noi, io e te, tutti, gli esseri umani. Hai voglia a sperare che Dio risolva… Lì ci sono calce e mattoni: rimbocchiamoci le maniche!

Non dare la colpa a Dio per le cose brutte che puoi cambiare da solo/a, non ringraziarlo per le cose belle che tu hai realizzato. Vuoi davvero regalare a qualcun altro il potere che hai sulla tua vita? Davvero pretenderesti aiuto, senza essere il primo ad aiutare te stesso/a?
È nostra la responsabilità della nostra felicità: nostra la colpa degli errori – non del ‘peccato’, né di ‘Satana’ – nostro il merito per le cose fatte bene – e non ‘di Dio’, né della ‘Provvidenza’ – nostra la grandezza e la capacità di cambiare vita – e non di un ‘Piano di Dio’ – nostra la possibilità di migliorare e fare più bello il pianeta. Non siamo ‘nelle mani di Dio’, perché non c’è. Possiamo credere che non sia così, ma fino a prova contraria anche quella è una nostra scelta.

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Ci sono anche persone che se non è dio è qualche altra cosa. Misteriosa quanto basta, ovviamente potente, possibilmente benigna. Perché «Non so… qualcosa deve pur esserci, no?»… No, non deve. Quindi non siamo obbligati. E intanto però – accanto a chi coltiva questi interessi per il proprio legittimo piacere, o giunge a un’idea simile per sue personali esperienze veramente uniche che non saprebbe spiegare altrimenti – ci sono ciarlatani che si fanno pagare bene per quel nostro ingenuo ‘qualcosa ci dev’essere’, inventandosi doni carismatici, virtù astrologiche ed energetiche, contatti con l’ultraterreno, amuleti magici e lanci d’incantesimi… Giocando sulla fiducia e con il portafogli di un numero sorprendentemente troppo alto di persone bisognose e pronte a lasciarsi prendere al laccio.

~ ∞ ~

Il fatto che ci sia tanta semplice credulità, che tanti si facciano credenti in questo o in quello rincorrendo un sogno e – in quel preciso frangente – senza usare il cervello, per me è molto significativo. Mi chiedo: cosa rende delle persone adulte così facili da manipolare, così cieche e pronte a fidarsi senza verificare? Così inclini all’obbedienza, bisognose di assoluti, delusi dal ‘mondo’, in sofferente ricerca d’amore infinito? Così felici di non darsi fiducia, e di non avere valore se non nel giudizio di un Padre da compiacere, così a proprio agio nel non darsi un’etica se non rimettendosi ai dettami di un Re, e pronti per lui – e non per essa – a fare qualsiasi cosa? E questo da adulti, anche quando intelligenza, cultura e sensibilità non gli mancano affatto?
La risposta che mi sono dato è che veniamo educati a farlo. Non con un corso specifico, e spesso nemmeno di proposito, ma attraverso anni di tirocinio immersi in dinamiche familiari e sociali condizionanti, che restano immutate.

Il sentimento di Dio non è innato, viene messo dentro all’uomo bambino. E prima si inizia a infondergli la fede, più facile e forte la si rende. Se Dio è l’unica fantasia in cui continuano a credere anche i genitori, crederci diventa spontaneo: a soddisfare la sua elementare curiosità razionale basteranno scarsi e semplici argomenti, il bambino ne assorbirà i precetti innanzitutto per via emotiva, come una compagnia abituale, importante e pervasiva. Sicché poi, crescendo, abbia pure sviluppato capacità logiche, cultura e autonomia com’è logico aspettarsi, quel piccolo pensiero che ha da sempre nel cuore tenderà a restare lì, semplicemente. Non vuole domande, non cerca più spiegazioni, non intende critica, e turba anche solo l’idea che non ci sia. Questa fede non è un dono di Dio, ma opera dell’uomo, intorno alla quale si è annullato il desiderio di sapere e la capacità di dubitare.
Andiamo oltre: insegniamo a ragionare in astratto (esempio: 2+2=4), ma delle cose importanti della vita (ad esempio: perché oggi mi hai urlato addosso? Dimmi, volevi farmi stare male?) meglio non parlare. Chi ci aiuta a sviluppare giudizio? Raro. E ad ascoltare e rispettare i nostri bisogni? Magari. Forse a scuola insegnano Logica, Filosofia (non Storia della filosofia), Etica delle relazioni o Comunicazione? Giammai. E in famiglia? Quante volte si dice ai bambini «Taci», «Non discutere», «Non essere polemico», «I grandi devi rispettarli», «Fai la brava», «Non piangere», «Non fare così», «Perché lo dico io», «Ora le prendi» e «Obbedisci»?

Le famiglie felici non nascono semplicemente perché due persone fanno un figlio. Quando nei nostri primi anni di vita l’autorità degli adulti più importanti si mostra perfetta ma è volubile, ora amorevole ora autoritaria, disponibile però anche giudicante, protettiva e affettuosa sì (specie fuori casa e davanti agli altri [!]) ma anche intransigente e abusiva (è abuso non solo quello fisico delle ‘botte’, che peraltro ancora si usano molto, ma quello morale che perpetriamo ad esempio a mezzo della sola minaccia, di giudizi avvilenti, ascolto superficiale, dialogo inefficace, sguardi severi, punizioni avventate, modi aggressivi, non riconoscimento, costante sfiducia, iperdirettività, esempio contrario, limiti troppo elevati, assenza o presenza di scarsa qualità, accettazione in misura del rinunciare a sé e del conformarsi a ruoli predefiniti), e quando – punto essenziale – essa ostacola e reprime l’espressione in parole ed emozioni del disagio che ne segue (umiliazione, rabbia, tristezza, dolore, indignazione, frustrazione, angoscia, confusione, disaccordo, solitudine, insoddisfazione…), allora come sentirsi sereni? Come sentirsi liberi e rispettati? Come coltivare fiducia in sé stessi e restare in contatto con le proprie emozioni? Come imparare a giudicare e regolarci da noi stessi, senza attendere e dipendere da filtri esterni per un’idea di come siamo? Come non sentirsi feriti, confusi, e dilaniati fra l’amore e l’odio?
Come non cercare di dimenticare o nascondersi certi episodi strazianti, prima ancora di averli compresi? Come riuscire ad elaborarli, per liberarsene? Come non rimuoverli, piuttosto, per sopravvivere mentalmente fino al giorno dopo?
E come non abbracciare poi i loro stessi errori educativi, ripetuti su di noi con infaticabile fermezza giorno dopo giorno? Come non passarli a nostra volta? Come non rassegnarsi a quella vita, o uscirne vestendo gli stessi panni di chi così ci ha cresciuto, o fuggire da certe follie solo per lasciarsi precipitare dentro a follie diverse? Come non temere di aprirsi all’altro, e di essere fedeli a sé stessi, se già così a lungo non ha funzionato? Come non sfogarsi di nascosto, e poi di nuovo sul più debole? Come non manifestare il disagio rimosso attraverso problemi di comportamento, nevrosi, persino malattie?
Come non mischiare, dentro di noi, amore, severità e sofferenza? Mi hai sentito: come non mischiare, dentro di noi, amore, severità e sofferenza?

Così nasce il senso puzzolente di ‘dover obbedire’, e insieme il desiderio di fuggire dalla realtà che ci costringe. Due tensioni che, oltre a farci stare male lì per lì da bambini, quando sono tenute dentro e mai guardate ed accettate per quello che furono, non ci lasciamo mai veramente alle spalle. Al contrario continuano ad affliggerci e a condizionarci, nell’intimo e con gli altri: ci faranno facilmente sviluppare cecità sulla nostra storia personale, incoscienza del bene e del male, solitaria disperazione o arrogante egoismo, rifugio nell’astratto, e quella rigidezza intollerante che è lo specchio del nostro passato, e che non a caso ritroviamo spesso nelle religioni e nelle le sètte, in politica e in economia, nella scuola e sul lavoro; contro la donna, lo straniero, le minoranze; fra i giovani, e – di nuovo – in famiglia. Mali dei nostri tempi.
Vedo in questo educare senza rispetto la causa prima di tante forme di sofferenza, e del suo costante ripetersi. Perché assorbire le regole del potere sull’altro, insieme al silenzio imposto alle nostre emozioni di piccole vittime, incide un sentiero sulla nostra pelle, un percorso verso nuova violenza e nuovo silenzio. E poi a seguire. Ancora. E ancora. È questa l’anticamera dei rapporti disfunzionali degli adulti, e il ponte levatoio verso credenze estreme e nuovi comportamenti distruttivi. Verso gli altri – senza accorgersi del danno – e verso noi stessi – senza sapere perché.

Un simile disastro di relazione è molto meno proponibile ad un adulto cresciuto diversamente, perché sarebbe in grado di fiutare il problema. Con chi l’ha patito da piccolo/a invece è molto facile: dipendere da bambini da questo tipo di amore vuol dire facilmente doverlo accettare, scambiarlo per naturale e buono e finire per abituarsi, diventando emotivamente ciechi, e quasi incapaci d’altro. Così si cresce la successiva generazione di replicanti. Ecco perché più tardi è ancora facile: si fa click sugli stessi bottoni. Malgrado le differenze pratiche che separano le tante espressioni di quel penoso prototipo – di cui tutti ci lamentiamo senza affrontarne le cause – il meccanismo che le regola è sorprendentemente lo stesso.
La religione, con il suo lontano Signore, e i suoi dogmi che non importa capire, e la sua morale imposta e spesso disconnessa dai nostri bisogni reali, sembra la fotocopia di relazioni simili. A mio parere lo è, quanto mai spesso, ed è per questo che la considero una sofisticata immagine di quel problema, che è più grande, più generale, e ancora più diffuso. Di fatto, un dio che si comporta in tal modo è insieme un modello dei rapporti di potere, e per essi un bel lasciapassare.
E se poi la ricerca primaria d’amore e rispetto in famiglia è fallita, come non sperare che oltre le nuvole esista quel genitore ideale di cui abbiamo follemente – umanamente – bisogno? Il tradimento delle necessità infantili non ne spegne il desiderio, lo devia all’infinito, nell’idealizzazione, nel trascendentale: non-luoghi dove possiamo finalmente essere amati come siamo da un genitore e una guida sicura. E totalmente contraccambiare.

È lo stesso rispetto che esigiamo fra adulti, non c'è motivo per cui anche al bambino non sia dovuto. È lo stesso che pretendiamo da lui, non c'è motivo per cui non dovremmo ricambiare.

Anche il peggiore bandito ha un cuore caldo, ma quando si guarda il petto vede soltanto scaglie di metallo strette l’una all'altra, fredde, lucenti e immobili. Le ha vestite un tempo per proteggere quel cuore, ma come una cosa che sposti al sicuro e poi dimentichi dov’è, da allora non ha potuto più sentirlo battere. L’uomo non nasce cattivo, ma può diventarlo. Il bambino è una persona, e come tale ha gli stessi diritti fondamentali delle persone adulte. È più fragile, e per anni dipenderà da noi, il che ci rende tremendamente responsabili. Il nostro modo di amare e di educare sono tutto ciò che ha, e in base a questi si farà un’idea di sé e del mondo. Ma quanti di noi si preparano a crescere un figlio? Quanti lavorano su di sé per non versargli addosso i propri problemi? Per saperlo ascoltare, accogliere e capire? Per dargli dei princìpi, senza sopraffarlo? Per dargli limiti, eppure rispettarlo? Per saper accettare le scelte alla quali ha diritto, e mediare le necessità e i desideri in modo pacifico ed efficace per entrambi? Non esistono genitori perfetti, ma esistono genitori migliori. E peggiori.
Quanti di noi si preparano, e quanti invece non lo fanno?

99 volte su cento, all’origine della cattiveria c’è una sofferenza interiore. Più ancora della disgrazia, conta il trauma emotivo. Più ancora della violenza fisica, conta quella morale. Per rendere infelice un bambino basta non capirlo, non rispettarlo, o non avere sufficiente fiducia in lui.

Non serve poter dire “io non picchio mio/a figlio/a”, e “non gli/le ho fatto mancare nulla”, se non ci accorgiamo delle ferite che anche la relazione produce. E la relazione è comunicazione. Tutto si fonda su di essa, ma quanti sono coscienti della sua importanza? Quanti si sforzano intenzionalmente di comunicare in modo chiaro, empatico e nonviolento? Quanti invece usano parole, toni e gesti come picconi e corde, per poi inorridire delle nostre reazioni?
Ci vogliamo meravigliare della malvagità, dell’egoismo viziato, dei rapporti abusivi, della superficialità, dell’aggressività, dell’estremismo, della passiva mediocrità, dell’insoddisfazione cronica, della mancanza di gioia e speranza e della depressione, delle dipendenze, dell’incapacità di comunicare dell’uomo moderno? Sarà legittimo una volta che non avremo dato un solo motivo ai bambini per diventare insensibili. Sarà legittimo quando non potremo rimproverarci di non aver fatto il necessario – sul piano psico-emotivo quanto su quello pratico – per loro come per noi. E nel momento in cui non faremo dipendere le relazioni familiari e sociali da contratti non scritti di soggezione morale e modelli di perpetua lotta. Cadere dalle nuvole, oggi, non è più possibile.

Colpa dei genitori, degli insegnanti, dei preti, dei politici, ecc. insomma? Sì, perché sono responsabili della crescita dei nuovi nati. Le nostre prime esperienze sono importanti e gli adulti che non ci pensano e non si preparano fanno male ai bambini. Però, se il mio ragionamento fila, è valso anche per loro. E per loro, rendersene conto e cambiare è una battaglia più difficile ancora, perché più tempo gli è passato. I figli piccoli amano e ammirano i genitori in modo incondizionato, per natura. E poi crescendo tenderanno a coltivare questo amore e difendere la loro figura, è ovvio. Ma solo quando si è educati a subire, ad allinearsi, a desistere, qualsiasi critica ad essi – all’‘ordine costituito’ – diventa inaccettabile, inconcepibile. Aprire gli occhi su colpe tanto gravi sarebbe come rispondere, ‘controbattere’, rimarcare errori, far emergere difetti, un ‘ferirli’ direttamente – cose che, abbiamo imparato, i bravi bambini come noi non fanno mai – e ci si spalancherebbe dentro un vaso di vecchie sofferenze così oscure e laceranti da sembrarci ancora insopportabili. Meglio tenerle ben tappate dentro, legittima e istintiva difesa. Ma gli effetti collaterali della repressione e della rimozione sono anche peggiori. È questa la cecità di cui parlo, quella che ci ha investito allora, e riaffiora malgrado essere divenuti adulti, capaci e savi.

Non so come la vedi, né qual è la tua esperienza in famiglia, magari – e lo spero – tutto questo non ti riguarda. Bene! Ma succede, ancora troppo spesso, in tantissime famiglie, ai più vari livelli d’intensità.
Vero anche che in realtà a volte basta un attimo per riprenderne coscienza; che la nostra reazione, oggi che non siamo più quei bambini, non sarebbe così devastante e infantile come temiamo – certo non quanto vivere una vita di verità rimosse; e che riconoscere la cattiveria nei nostri genitori non toglie, né toglierà mai, valore agli infiniti altri gesti amorevoli e all’affetto vero e intenso che pure avranno avuto per noi.
Aprire gli occhi è doloroso, ma cura, una volta per tutte.

~ ∞ ~

Convivere piacevolmente a volte non è istantaneo, né facile. Ma oggi abbiamo sia i princìpi che gli strumenti più adatti a farlo. E come per ogni professione, hobby o abilità, affinché diventi una cosa semplice e quotidiana è ovvio che è prima necessario apprenderne la tecnica, e farla propria. Te l’immagini un cardiochirurgo senza anni di specializzazione, o un fotografo che non sa niente di luci e composizione, o un pilota che si butta in pista senza esperienza di guida?
C’è chi si scopre portato/a, ma anche lui/lei, per eccellere, non potrà che affinare la sua abilità facendo tesoro di tutto il meglio a sua disposizione. Il suo talento, unito alle più efficaci conoscenze, lo renderà un grande del suo campo. Senza un’ottima scuola, le nostre brillanti predisposizioni resterebbero un abbozzo, nient’altro che un inizio. Quando avremo capito e assimilato certi insegnamenti, non solo saremo veramente bravi, ma ci verrà del tutto naturale.
Così è, avrai capito, per i ‘mestieri’ di amico, partner, leader, e… genitore. Stare bene insieme è a tutt’oggi sia l’attività più importante di tutte (e c’è in tutte!) che quella più sottovalutata. Si ritiene che guidare, educare, siano abilità naturali – genitori ‘si nasce’ e si pontifica – ma così ognuno/a è lasciato a sé stesso/a, ai vecchi metodi, agli stessi errori. I risultati si vedono, per niente buoni troppo spesso.
Oggi, però, sappiamo come migliorare i rapporti umani. Non per caso, alla come viene viene, sappiamo proprio come si fa! Ed è ora di nutrirci di tale conoscenza, appropriarcene, viverla, e di condividere questo prezioso tesoro con i nostri ragazzi. Passando per la scuola – che non sia più un contenitore di nozioni mal spiegate e poco attraenti, ma colorata palestra di cultura e rapporti umani – possiamo formare gli adulti, e dedicare ai genitori lezioni essenziali – non solo per cambiare pannolini e scegliere omogeneizzati, ma per legare con i propri figli emotivamente, per essergli d’aiuto senza fargli da capi, per sapersi esprimere e saperli ascoltare in un clima di reciprocità, per fargli sentire i necessari limiti e i valori essenziali, e insieme il profondo rispetto per la loro persona, e la viva fiducia che nel loro essere sé stessi sapranno essere adulti in gamba.

Sentirsi criticare come genitori non è mai bello, a maggior ragione se già abbondano i nostri sforzi, i buoni propositi e le difficoltà quotidiane. Vanno dati per scontato, e sono il punto di partenza: proprio perché ai figli si vuole bene, proprio per il sicuro desiderio di vederli felici che c’è in ogni buon genitore, proprio per questo sarà bene investire tempo in ciò che funziona, e accettare di correggersi in quelle parti che ancora lo necessitano. L’idea non è quella di denigrare le più nobili intenzioni, ma di dare ad esse la possibilità di manifestarsi in modo raffinato e a tutto campo. Non quella di minimizzare i successi, ma di moltiplicarli esponenzialmente.

È che non possiamo non insegnare, non influenzarli, non dare un esempio che qualcuno seguirà. Allora sta a noi scegliere il modo più dolce e insieme efficace di farlo. Esistono libri, corsi e terapie eccellenti per cominciare a sgrezzare ed affinare la capacità di relazione in famiglia. E, naturalmente, con sé stessi. E poi pratica, pratica, pratica! Il primo passo è prendere coscienza che il nostro agire ha delle conseguenze. Buone o cattive, di nuovo le stesse o diverse e speciali, dipende da noi.

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Crescere, guarire, comunque migliorare… Imparare a pensare e sentire, liberi, è sempre possibile, nonostante tutto. Non sempre si può farlo insieme, anche se sarebbe bello, e a volte si deve lasciare che gli altri seguano un’altra strada… Pazienza. Ora che sai dove guardare, chiama le cose col loro nome e va’ per la tua, verso la persona che desideri essere.