Piccolo manuale di Umanesimo ateo

Il perché e il percome di una vita senza dèi.

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Intro
Prima parte / Un leggerissimo cambiamento
1. Allora, chi è Dio?
2. Quali prove abbiamo che esiste un dio?
3. Che bisogno c'è di credere?
4. Ma se Dio non c'è, come può l'uomo essere buono?
5. In cosa credere? Il cuore dell'Umanesimo
Seconda parte / Cosa dice la Chiesa
6. Perché ci battezzano?
7. A che serve la prima comunione?
8. Un dio così ci rende schiavi

9. Il male, il peccato, il sesso
Terza parte / Quello che la Chiesa non dice
10. Le bugie della Bibbia
11. Credenze cristiane tutte da verificare
12. I brutti esempi di chi predica il Bene
Help & Tips / I trucchi della comunicazione
Finale
Appendice A / I comandamenti: 10 …o 40?
Appendice B / Il peccato originale
Bibliografia

8. Un Dio così ci rende schiavi

Parliamo ancora del cristianesimo, perché oltre ad essere la religione a noi più vicina (in forma di cattolicesimo) è anche una che passa proprio per ‘perfetta’. Quelli che vedremo sono alcuni suoi tratti essenziali. Spiegherò perché secondo me sono come unghie che scorrono sulla lavagna. Per tutte le altre ci si può fare domande simili, al fine di scoprire quanto veramente anch’esse siano vicine agli uomini e alla verità.
Esistono certo differenze anche forti al suo interno – sia di dottrina che personali – perché il cristianesimo non è quella religione compatta che si immagina, ma un insieme di mille correnti e interpretazioni. Perciò, se chi legge non si ritrova in tutto, meglio per lui/lei. Ciò non vuol dire che per altri – tanti altri – non sia così. E non mi meraviglierei se invece scoprisse di saperne meno di quanto crede – anche molto meno: la fede di tanti si fonda spesso su qualche striminzito ricordo di catechismo, e l’abitudine. Il discorso quindi è: se il (tuo) cristianesimo dice questo, allora… ecc. Quando invece sbagliassi io, beh, correggerò molto volentieri.

Questa è una critica, e sarò schietto. È inteso che non scrivo tanto per polemica, e mi dispiace se qualcuno di particolare sensibilità, avendo scelto di leggere, ci dovesse stare male. Sia chiaro ancora: non scrivo per vincere una disputa, mi interessa la verità. E non me la prendo con le persone, ma intendo discutere le idee e le azioni che, per origini e conseguenze, ritengo dannose e false, o almeno incomplete e perfettibili.
Sostengo non che la religione sia la causa ultima della violenza nel mondo, ma che possa esserne un ottimo strumento. E non per una fede mal intesa, ma proprio per come può essere correttamente interpretata. Con i suoi dèi misteriosi e indiscutibili, essa può offrire sia un considerevole appoggio alla repressione del nostro vero sé e al controllo della massa, sia una formidabile giustificazione teorica a questi comportamenti.
Qualsiasi credo così vissuto è una semplice manifestazione della primitiva mentalità potere–obbedienza, storicamente un problema non solo della religione ma anche della politica. Con alcuni denominatori comuni, oltre alla forza bruta: propaganda, indottrinamento, violenza morale, fede. Ingredienti necessari e alla lunga più efficaci della tortura fisica, perché non solo il popolo non possa ribellarsi, ma proprio non sia più in grado di capire, e perciò difendersi, da ciò che non gli sembra più cattivo. Nessuna novità e nessuna sorpresa, quindi.
Una religione nutre per natura una presunzione che può diventare fanatismo, e favorisce una sorta d’intolleranza che può farsi imposizione violenta. Non solo la grande violenza fra civiltà e Stati, ma la piccola, quella di ogni giorno, intorno a noi, fra noi; e non solo la violenza sul corpo, ma anche quella psicologica, entrambe tanto peggiori quanto più soffrano di buone intenzioni. Usciamo dal gioco! Oggi, che ne abbiamo consapevolezza, possiamo fare meglio. E dunque stare meglio.

Qualunque cosa, idea o persona che miri a toglierci la libertà, i diritti comuni e la generale consapevolezza di noi e delle nostre potenzialità, va scoperta, isolata e respinta, se non vogliamo essere noi stessi a chiudere il lucchetto della gabbia che ci viene eretta intorno chiamandola ‘felicità’.
La religione, invece, a volte fa proprio il contrario: obbliga gli esseri umani a farsi piccoli piccoli, servitori, valletti, poggiapiedi, fronzoli, schizzi di pipì di mosca di fronte agli dèi e sottomessi ai loro sacerdoti. E senza armi, eh… solo con le parole. Il cristianesimo sa essere particolarmente bravo in questo.
Non sembra così, vero? Eppure… Si comincia molto presto a comprimere la nostra libertà di essere con del filo spinato virtuale. Non lo vedono così, però, non lo chiamano in questo modo, e sorridono sempre. Sorridono anche se:

* Appena nato/a ti danno una religione che non hai scelto. La loro.
* Poi guardano in alto e dicono di vedere un dio, e anche tu lo devi vedere, cioè sei libero di non vederlo ma saresti davvero strano… perché Dio ti è vicino, è dappertutto, solo che in chiesa di più, perciò vacci, amico.
* Poi, minacciano le torture eterne dell’inferno per chi, cioè te, non fa quello che chiede Dio, o meglio, quello che vogliono loro, perché non è che dio a loro parla.
* Poi ti ricattano col marchio del pendaglio da forca, il ‘peccato originale’, che ti costringe a dubitare della tua indipendenza e capacità di giudizio, e ad aver paura di tante cose (ad esempio del sesso).
* Poi, ti impongono la confessione di questi ‘peccati’: vai dal prete – una persona come te, che ha il potere chissà come di assolverli – a ‘confessare’ come un ladro azioni e pensieri che per loro sono sporche, immorali e orribili, e per te magari giuste, piacevoli e innocue.
* Poi, devi andare a catechismo. Non hai scelta, se i tuoi decidono è fatta. Ci si va perché ‘è tradizione’, ‘è normale’, ‘ci vanno tutti’ (non è più vero, ma non sembra che importi), oppure ‘noi ci crediamo, ci crederai anche tu’, tu che sei troppo piccolo/a per decidere di non andare, ma mai troppo per andarci. E lì, ti intortano con una serie di favolette, come quella della creazione del mondo, di Adamo ed Eva, dell’arca di Noè che salva gli animali e di Gesù che frigna se fai di testa tua: gli adulti e i preti sanno che non è così, ma intanto ai più piccoli lo insegnano, affinché l’idea di un dio guardone e giudice gli resti impressa come è rimasta impressa a loro.
* Poi, si irritano se qualcuno nega apertamente i loro dogmi. E non è raro che si impegnino a metterlo/a a tacere o a farlo/a sentire diverso e sbagliato, con forme di discriminazione e vittimismo bigotto. Il loro dio è fragile, va protetto. Dubbi e domande? Aaah, quelle facili. Insistere? Uuuh, non è permesso. Approfondire? Eeeh, nella fede.
* Poi, tirano fuori i loro 10 comandamenti, vecchi e rigidi, (che spesso non ricordano neanche loro), e dicono che sei bravo/a solo se li segui, altrimenti sei una delusione. E sei cattivo/a pure se sei buono/a, perché i comandamenti non valgono in sé stessi, sono di Dio e a lui la lode e la gloria, ci mancherebbe.
* Poi… chiedono di porgere l’altra guancia all’aggressore, perdonare l’ingiustizia, sottomettersi… accettare il male, pregare, servire, sopportare, acconsentire, soffrire… Subire! Certo, tanto c’è il paradiso. Dopo. Prima dobbiamo rassegnarci a una vita di sacrificio. E crepare.
* Poi, chiamano ‘buoni’ i cristiani e quindi ‘cattivi’ gli altri: strombettano di tolleranza ed ecumenismo, che sono cose belle, ma invece vuol dire che loro sono fighi e ‘tollerano’ gli altri, perché alla fine è necessario il Dio cristiano per meritare il Paradiso cristiano, e questa cosa che non ci si crede proprio non gli va giù.
* Poi, perché sia evidente a Dio quanto sappiamo bene chi possiede il creato, e per non correre il rischio che la gente se ne dimentichi, procedono a marcare il territorio fuori dalle chiese e dalle case, con crocifissi a bella posta nelle classi scolastiche, nelle aule di tribunale, negli ospedali, negli uffici pubblici, persino sulle montagne. Tutta roba sua, e dei cristiani.

Qualcosa suona familiare? Una lista veloce, una prima serie di indizi che ora svilupperemo. Non che lo facciano tutti, non tutti tutto, e non è che sorridere sia male… ma allora perché poi le canagliate? Azioni del genere possono suscitare un numero di emozioni e pensieri sgradevoli, tipo: «devo credere», «devo vergognarmi»… «devo essere così, e non cosà», «quello che desidero è sbagliato»… «non sono all’altezza», «sono cattiva»… «sono arrabbiato ma non posso farlo vedere», «ciò che dicono loro sarà sempre più giusto»… Non è bello. E se nel tempo diventano modelli di vita, ancora peggio.
La mia impressione è che si cerca di renderci servi impotenti di un invisibile dio, e poi sono loro a comandare. Tu che ne dici? Che esperienza hai?

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D’accordo che uno crede in chi gli piace, ma meglio qualcuno che dia una certa garanzia di lealtà, no?

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La cattiveria già sarebbe un bel problema, ma vuoi sapere quando veramente si raggiunge il massimo? Quando la cattiveria è mischiata alla bontà. Perché questi metodi di controllo sulla nostra vita diventano meno facili da inquadrare e definire, visto che non viene usata una forza fisica diretta come in una guerra. Ad esempio, se uno dice «Intendo che tu faccia questo!» si capisce che è un ordine e se ne discute. Ma se uno dice «Fai questo, per favore caro/a, così Dio, che sempre ti guarda, saprà che sei ubbidiente!» ecco, è già più difficile capire cosa fare: chi è Dio? Come fa a guardarmi sempre? Pure al cesso? Se non obbedisco che mi fa? Ma obbedire è una cosa buona? Se non piaccio a Dio piacerò alla mamma?… Nel dubbio magari eseguiamo, un po’ oppressi dall’idea che qualcuno sia lì a giudicarci, e sempre più insicuri riguardo ai nostri veri desideri. Beh, ecco un altro modo di esercitare potere sulle persone, dunque: sottilmente, con apparenza innocua, affabile, gentile… per poi tradirci sulle cose importanti. Per questo è così pericoloso. Pericoloso due volte, perché al contrario della bruta ferocia che il consenso lo estorce e lo impone, qui è ottenuto sul piano psicologico, svuotando e omologando l’anima: lentamente, metodicamente e salvando le apparenze, la si abitua all’ubbidienza, la si condiziona alla rassegnazione, le si toglie speranza, la si distrae continuamente da ciò che per lei è essenziale, la si spinge a credere nel sistema e ad apprezzarlo, la sia invoglia a restare di sua propria volontà. Si può piegare il corpo per un po’, ma se si piega la mente il gioco è fatto. Nessuna guerra e nessuna violenza paga quanto manipolare le vittime affinché esse stesse desiderino restare tali.
Se avessimo davanti un tiranno crudele, un mostro che non nasconde il proprio odio e non fa mistero della sua aggressività, sapremmo bene chi è e contro cosa combattere. Ma se il mostro si veste da amico? Se ci tiene confinati, ma in cella ci mette una bella tv e il menu fisso è buono? Se non considera affatto certe sue azioni come lanci di pietre, ma come il modo più giusto e naturale di prendersi cura di noi? Diventa difficile non confondersi. Difficile giudicarlo per il male che fa, difficile ragionarci, difficile fermarlo. E difficile cacciarlo via, perché cacciamo anche la sua parte buona: la parte che amiamo, e quella che ci ama… che dice di amarci, o ci ama davvero. Eppure ci usa, ci domina e ci giudica, per mezzo di parole e gesti che ci prendono dritto ai sentimenti, nelle emozioni, nell’opinione di noi stessi. Pietre senza massa, sangue che non si vede. Lasciandoci tanto più feriti quanto più è implicito e indiretto il colpo – tanto più confusi quanto più importanti per noi sono le persone alle quali ci siamo aperti con fiducia. Un tempo era il dolore ad assicurare l’egemonia, oggi è la paura, la dipendenza emotiva, l’inerzia mentale, l’illusione. Un tempo era la spada, oggi è la parola.
Se pensi che a questo tipo di dinamica – violenta dunque, non c’è dubbio – siamo esposti fin da piccoli – cioè nel momento di maggior bisogno, minore consapevolezza, e innocente amore verso chi si prende cura di noi – puoi capire quanto danno e che conseguenze può avere su di noi, al punto da restarci in pancia e modellare il nostro futuro, inconsapevolmente.

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A trovare assurde e impossibili questo tipo di osservazioni sono soprattutto quei tanti credenti sinceri che sono animati principalmente da propositi nobili e costruttivi. Spesso in punta di piedi, con punti di vista diversi dai loro superiori, stanno dalla parte migliore della loro religione.
La loro è ancora una fede positiva che, pur partendo da un dio lontano, arriva a fare del bene alla gente. E quando parlano del loro Dio vanno in brodo di giuggiole, sono così felici e convinti… sembra parlino di una cosa reale. Una reazione sbalordita, di fronte a un modo di pensare che dubita dell’esistenza degli dèi e critica il comportamento di tanti predicatori, si può capire.
Ebbene: vogliono credere a un leggendario e fantasmagorico dio? Facciano, è la loro vita. Ma spieghiamogli le cose, sennò ne insultiamo sia la sensibilità che l’intelligenza… Non è giusto che restino all’oscuro dei tanti errori del loro cristianesimo e della gerarchia cattolica. Non cade mica il mondo se non è tutta santa come dice. O il credente dev’essere per forza uno zombi, su queste cose?
Le belle idee e le loro fatiche sono proprio infangate da quella parte della Chiesa che è sempre stata priva delle fette di prosciutto sugli occhi delle ‘intenzioni ispirate’. È molto consapevole: sia dei tanti loschi strafalcioni di principio (che ha prodotto, e mai veramente corretto, in 2 millenni), sia degli astuti metodi di comunicazione che usa da sempre per sviluppare i suoi affari. Ora, cosa c’entra questo con la spiritualità? Dai, non raccontiamoci storie: un conto sono le buone opere, un conto la fede cieca, altro ancora il prendere per le chiappe. Sarà brutto dirlo, ma è vero. Indelicato, ma leale.

Una certa Chiesa e tanti appassionati credenti sono due cose opposte.
C’è quindi qualcosa che non va, se i portavoce di Dio più furbacchioni usano il raggiro, la scorrettezza, l’invadenza, i ricatti, il senso di colpa, l’ignoranza, il sotterfugio, il condizionamento, l’illusione e la paura… per far accettare un messaggio che dovrebbe essere solo che ‘giusto’, ed evidentemente ‘buono’. Il che non vuol dire che dobbiamo rinunciare per forza alla spiritualità, o non credere più a niente e nessuno, ma certamente nessuna forma di pensiero che ci venga imposta (pur sorridendo) merita di essere creduta e seguita come se solo chi la impone ne capisse di felicità.
Si dice che i grandi valori oggi sono in crisi, ed è tristemente vero… ma una religiosità di questo tipo non è la soluzione, e anzi finché sarà cieca, confusionaria e repressiva essa fa parte della crisi.
Una spiritualità senza tagliole è possibile? Ne va del nostro amor proprio e della nostra serenità. Risolviamo i problemi, invece di crearne altri, perdiana!

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Vogliamo fare un discorso più generale, andando oltre le grandi religioni? E facciamolo, per un attimo: questo modo di fare, fuori accattivante e dentro manipolatorio, lo usano tanti altri personaggi poco seri… Penso ad alcuni politici, dal fare lustro e impegnato, più occupati però a salvaguardare i loro privilegi e a infondere certezze troppo facili nei loro elettori.
A direttori di industrie multinazionali e lobby che curano sì le relazioni pubbliche nel mondo, ma si disinteressano di migliaia di loro faticanti, e dell’ambiente.
Ai santoni di certe sette, che prima consolano e suscitano idee piacevolissime nei fedeli, ma poi esigono obbedienza assoluta, soldi e luride soddisfazioni personali. A certi capiufficio, che amabilmente giocano con il tempo e l’impegno dei loro impiegati, come fosse loro.
E ad alcuni genitori, che ai loro bambini vogliono certo molto bene, ma in casa proibiscono, impongono, criticano e mancano di rispetto troppo spesso.

Essi hanno interessi da sorvegliare: denaro, successo, potere sulla vita della gente, controllo sulla propria, ed intendono mantenerlo. Tutti sono esempi di dominazione, di una forma di dittatura più sottile, ormai lo sappiamo, che non passa per le armi o la violenza fisica (però sui bambini spesso ancora sì, dannazione!), che non si fa notare, ma per questo è peggiore: si maschera da bravura, poi fa in modo che le persone accettino di soffrire, credano di non poter migliorare, e considerino normale tutto questo. ‘È la vita’.

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Non sarà sempre così: un giorno del nostro futuro… Ok, lasciamo aperto il discorso generale, e riprendiamo quello particolare riguardante la religione.

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Atei e umanisti sanno bene che una qualunque religione può anche portare frutti eccellenti. Solo pensano che non sia necessaria per ottenerli.
Anzi, a volte li fa seccare, o li calpesta. O li avvelena, e quelli nascono lo stesso.
A volte poi ne fa di disgustosi.
Può capitare a tutti, direte. Esatto.
Quello che non dovrebbe capitare, è che continuino ad essere presi per deliziosi, per salutari.
Eppure.

~ ∞ ~

Fermo restando che le idee su dio, Gesù, madonna, paradiso, inferno e tutto il resto, sono appunto idee senza materia, e che solo con gli occhiali sdentati della fede sembrano vere, vediamo se almeno sono cose belle da credere.
Ricordiamo: né il crederci né il ricavarne passione o successi provano in alcun modo la realtà di dèi o di aldilà. Se così fosse, avrebbero ragione in contemporanea tutte le diverse religioni, a nessuna delle quali mancano fede o risultati. Ad esempio, Gandhi ha fatto grandi cose, ma questo non conferma la realtà dei suoi dèi (Gandhi era induista). Un primo difetto quindi è la credenza dogmatica in tutta una cosmologia che invece va ancora provata. Ok. E cosa si può dire proprio del cuore del messaggio di Dio?

Il Cristianesimo sarebbe innanzitutto un evento storico, un ‘fatto’.
Ora, visto che questi fatti meravigliosi su un redivivo dal miracolo facile non contano alcuna prova storica che sia una, è più che altro meraviglioso che si considerino tali. Lo si fa per fede, il che conferma che non sono fatti. Se lo fossero, servirebbe forse la fede?
Ancora più meravigliosa – sempre nel senso di bizzarra – è la convinzione che il cristianesimo non sia tanto una dottrina ma… l’incontro con un uomo-dio, risorto e presente. L’incontro.
Che dire…
Prendere un uomo –> scordarne i difetti –> preferire la sua persona al suo pensiero –> anteporla ai grandi ideali –> farne un dio, è già una esagerazione spropositata. Ma credere di poter avere una re-la-zio-ne con un tizio vissuto 2000 anni fa – parlargli, ricevere risposta, considerarlo un amico, sentirne l’amore e persino innamorarsene – è esplorare le vaste potenzialità dell’autosuggestione.
E… riesce! Beh, ma lo sappiamo bene! Ciò che pensiamo crea emozioni. Convinzioni e aspettative, ricordi e fantasie hanno un effetto del tutto speciale su di noi, diventano la nostra motivazione, la nostra forza, la nostra passione, la creta con cui diamo forma alla nostra identità e il propellente delle nostre migliori azioni. Letteralmente danno vita alla nostra vita, e persino quando non rispondono a realtà, la diventano. Ci si può convincere di una verità, e di dire la verità, infatti, anche a causa di informazioni incomplete, o ragionamenti sbagliati. O perché qualcuno la nostra creta si è già divertito a sbatterla e appiattirla. O ancora, perché inconsciamente li usiamo come meccanismo di difesa da una realtà in qualche modo intollerabile, o perché cerchiamo di riempirci un vuoto, o per adeguarci e infine trovare pace… Alcune di queste false verità diventano giudizi disfunzionali su noi stessi, o paure che ci inseguono, o fuochi esaltanti da cui ci lasciamo bruciare per tutta la vita. Anche l’illusione crea emozioni. Quando si sente ispirato l’essere umano è capace di cose grandiose, è così che funziona. Figuriamoci quindi se ci si convince che ad amarci è una divinità, e in palio c’è un paradiso. A maggior ragione no? Incredibile i cambiamenti e i turbamenti interiori che si producono nelle persone (di qualsiasi fede!) senza che questo dio – o questo uomo – si sia mai presentato loro in carne ed ossa, ma solo ‘nel cuore’.
Un po’ come pensare a una casa stregata: suscita paura, brividi, dicerie e ostinate superstizioni, ma dei fantasmi… nessuna traccia. In realtà, trasformazioni mirabili accadono sempre quando si nutre speranza e si pensa di avere buone possibilità, quando ci si sente amati e stimati, sospinti e aiutati… quando si ha fiducia in sé stessi e ci si dà ha un progetto di vita, magari insieme ad altri… Accadono sempre, in noi – dio o non dio – persino se ciò in cui si crede così tanto non ha senso o è sbagliato. Ed ecco che ci sentiamo pervasi di un’energia speciale, sentiamo la vita e la passione, ci sembra che tutto andrà bene e potremmo affrontare qualsiasi prova. Al contrario, quando ci si sente soli e non capiti, pessimisti o sfiduciati, spesso ci sembra che niente vada, svanisce lo slancio e smettiamo di vedere e cogliere le occasioni positive che la vita comunque ci propone… Il nostro umore, l’entusiasmo e spesso il successo, dipendono da come vediamo le cose, ovvero da cosa pensiamo e come. La potenza di un credo, la straordinaria forza di una visione di vita non vanno sottovalutate: più ne siamo convinti, maggiori saranno le opere in numero e imponenza; più sono positivi, maggiore qualità avranno i loro esiti. Nel bene e nel male, quando un sogno è tutto ciò che abbiamo e vi restiamo attaccati abbastanza a lungo, chi può dire cosa ne nascerà?
Allora considera: se fin da piccoli ci insegnano che Gesù ha fatto questo e quello non in quanto verità teologica, ma come storia vera… se poi si dà a questo ‘Dio vivente’ l'importanza sentimentale di qualcuno senza il quale non si può essere veramente felici, completi, capaci, e nemmeno buoni; che ci ama come siamo, eppure va creduto, imitato, obbedito, soddisfatto; che è perfettamente giusto, ma onnipresente giudice delle nostre imperfezioni; che viene raffigurato morente, a perpetuo ricordo della sua divina sofferenza [?] e della nostra colpa; e se si insinua che l'inferno in fondo è molto più vicino del paradiso… con premesse come queste, cariche di emozioni, di giudizi severi e doveri supplementari, è facilissimo che nel nostro intimo si generi presto sia un forte attaccamento all'idea e alla sensazione di ‘Dio’, sia un certo disorientamento rispetto a sé stessi. Diventa impensabile l'idea di starne senza, e anche solo di riflettere su tutto questo, di ponderarne la verità e giudicarne la bontà: «Cooome puoi tu, naaato peccatoooooore, criticare Diiiiio? Lui ti ama e tu lo critichi?? Lui è giustissimo e tu gli trovi un difetto? Noi ti diciamo che è vero e tu ci dici bugiardi? Ma allora vuoi andare all'inferno!». Non è solo la capacità razionale all'indipendenza che viene a mancare, ma proprio la capacità emotiva. Che è più forte, più profonda, e colpita prima. Tanto che anche quando razionalmente uno ha dei dubbi, o proprio non crede perché giustamente non vede, interiormente si schiaffeggia da solo, e si ritrova a temere la spaventosa ira di quel dio che ha appena capito che non esiste.
Una visione di vita che si fondi su questo, è a mio avviso perfida e disonesta.
Vale la pena di disimparare tutto ciò, e – stanne certo/a – possiamo.

Chi si illude di Dio, gode di Dio.
Solo che questo, ormai è chiaro, non ci dice nulla sulla reale esistenza o meno di quel dio e di quel paradiso. Proprio un gran bel nulla.

Bene, mi sembra chiaro che il cristianesimo non è né un fatto né un incontro, a meno di crederci. La forza dei 2 argomenti perciò svanisce.
L’importanza di questa religione si fonda in realtà su cosa racconta, e su come lo fa. Il come lo abbiamo visto, con quei modi non sempre dolci e rispettosi ma tanto spesso invadenti, pomposi, dissimulati e imposti… Ora parliamo del cosa.

«Frena, ma… criticare, non è mancanza di rispetto?»

No. Insultare lo è, calunniare lo è. Come assillare, sermoneggiare, minimizzare, sfottere, zittire o intimorire. Istigare all’odio del diverso o alla violenza, discriminare, reagire con intolleranza, prendersela con una persona come fosse il male incarnato invece di affrontare le sue idee e opporsi ai suoi errori. Questo sì, davvero offende e ferisce. Siamo d’accordo, no?
E tutti noi dovremmo rifiutarci di parlare così. Dovremmo tutti evitare di esprimerci e agire in questo modo presuntuoso, villano e violento. Tutti. Lo sottolineo per quei bigotti che invece – come oggi si sente da più parti – vorrebbero per sé e solo per sé il privilegio di contestare, e sparlare, degli altri, fino a minacciarne la libertà e la serenità (e a volte persino l’incolumità fisica). Concordi su questo confine – si spera – dobbiamo essere liberi di esprimere noi stessi. Non è mancanza di rispetto affermare le proprie idee, né esprimere disaccordo! Non lo è confrontare certe idee con alti ideali, trovarle mancanti e dirlo. Non lo è criticare delle azioni per i loro gretti risultati. Né invitare a pensare e sentire in maniera libera e autonoma, né cercare modi efficaci per vivere meglio e insieme. Diverso, no?
Rispettare non vuol dire essere d’accordo. Rispettare vuol dire esprimere il disaccordo con un certo garbo. Vuol dire che quando si hanno idee diverse, soprattutto quando la cosa ci tocca da vicino e personalmente, si userà rispetto nel parlarne, con la discrezione del caso, ma se ne parlerà. Altrimenti, chi tace subirebbe la libertà e le idee dell’altro. E anche questa sarebbe mancanza di rispetto.

Quando si insiste sulla presunta ‘immunità’ di un credo, facile che si stia impastando di nuovo il significato delle parole: non è rispetto che si domanda, ma ossequio, sudditanza, tributo, supino conformismo. Ogni parola diversa da una devota arrendevolezza da parte di chi, non credendo, devoto non può essere, viene considerata subito insolenza, villania, insulto, attacco, odio, discriminazione o generale cospirazione… Forse per ipersensibilità, a volte per un malinteso senso di rispetto a senso unico, altre invece per scarsa (ma ben recitata) modestia. Immunità… in omaggio a che? Al rango, alla fama? Negativo, non funziona più così. E riesumare il delitto di lesa maestà dimostra smisurata presunzione d’altri tempi. Al sentimento di alcuni? Giusto, ma i sentimenti degli altri? Forse che non esistono, che non hanno pari valore? L’armonia e la critica nascono entrambe dai sentimenti: se c’è un problema di sentimenti feriti, di diritti in qualche misura negati, allora è giusto e importante che il disaccordo si possa esprimere. E questo vale per tutti. Libertà di religione non significa libertà dalla critica. La religione ha un impatto possente sulla società e sulle persone, dunque deve poter essere attentamente giudicata. Come facciamo per la politica, l’economia, la scuola, la scienza… Perché mai dovrebbe essere diverso?
Non c’è ragione di dare a una cosa più rispetto che alle altre, né fortuna alcuna, solo perché d’ambito religioso. Chiunque voglia per sé il diritto di pensare ciò che vuole e la libertà di esprimerlo, deve accettare che anche gli altri ce l’abbiano. Non diventa più semplice di così.
Chiusa nel suo castello di cristallo, invece, certa religione vorrebbe schivare ogni critica, come non sbagliasse mai. Eppure non lo dimostra, semplicemente lo ritiene impossibile. E dunque chi gliela fa dev’essere in torto e in cattiva fede, un sofista, un malvagio. Eppure non lo dimostra… L’idea di base è che la dottrina, venendo da Dio, è per sua natura incontestabile. Ma nel mondo democratico di oggi non è più un argomento che fa presa, mannaggia, perciò si pretende per via di un concetto assai più moderno e digeribile: il diritto al rispetto per la ‘sensibilità religiosa’. Con un colpo da maestro, chi dissente sui contenuti diventa colpevole di attacco alla persona.
Come se ogni tesi religiosa – dalla migliore alla più irrazionale, bigotta, violenta, dimostrabilmente falsa o immorale – stesse sullo stesso piano e fosse allo stesso modo legittima, in forza di un’aura spirituale che gli si accredita al di là della sostanza. Ma è questo che dobbiamo accettare? È questo che merita il quieto rispetto di tutti? No: il diritto alla parola e all’opinione va ben distinto dall’altrui dovere inesistente di farsele piacere, né sarebbe accettabile trattenersi dalla critica di ciò che si ritiene una sciocchezza (o una mostruosità), per sollevare chi l’ha pronunciata dagli affanni della sua giustificazione. Quando una scelta personale esce dal privato per incidere sulla società e gli uomini, non possiamo lasciare che la fede di alcuni decida ineluttabilmente per tutti.
Perché, dunque, i sentimenti e le idee basate sulla fede dovrebbero essere difesi più di quelli che non lo sono? Sono forse un mondo a parte? Sono forse più degni? Con buona pace del credente, no. Non è automatico che una cosa profonda e giusta sia anche misteriosa e mistica, né che una cosa cui si attribuisce valore mistico sia anche profonda e giusta.
Basta che uno sia persona ‘di fede’ che subito si pensa di lui «Aaah, brav'uomo!». Ci siamo abituati a concedere rispetto alle religioni in automatico, come fosse ovvio e dovuto: no, non è così. Non è sicuro affatto che non meritino critica. Qualsiasi credenza e le conseguenti azioni possono avere colpa, se nonostante le apparenze producono consentono o giustificano non libertà dialogo e cultura, non maturità e benessere, ma rigido controllo emotivo, ignoranza o miseria, violenza fisica e psichica su persone indifese o dalla vita diversa, e non per questo criminali. Succede, lo sappiamo bene. E finché faremo finta che non può essere, che mai è così, ci sarà sempre qualcuno che ne approfitterà. In religione, in politica, in tutti i rapporti umani.
Il fanatismo è a un passo. Il rispetto va guadagnato.
Il sentimento religioso è forse più debole? Sentirsi criticare non fa piacere a nessuno, ma provare esplosivi sentimenti di oltraggio e umiliazione a volte è una reazione esagerata di cui non si può dar colpa ad altri che a noi stessi, e allora dovremmo chiederci se non è anche paura e fragilità che proviamo, in fondo. La fragilità di chi sa di avere un’opinione che non regge all’esame della modernità, la paura di perdere vantaggi e consenso a ritmo crescente, e, forse ancor di più, di dover affrontare una realtà che ci rende profondamente inquieti, e non vorremmo. Può essere?
La critica riguarda la verità: e la verità può ferire, eccome, ma è pur sempre verità e se accertata ci si può offendere quanto si vuole, resta vera. Legittimo offendersi, illegittimo usare l’offesa come strumento per limitare la disamina del proprio credo, proteggersi dalla disapprovazione, conservare privilegi, e giudicare male chi genuinamente persegue un altro cammino.
Il problema del disaccordo va affrontato – con il coraggio e la ‘forza bruta’ di argomenti assennati – non capovolto e ridotto al silenzio, mancando di rispetto due volte a chi protesta. Di tutti vanno rispettati i sentimenti, e la libertà di esprimerli. Ci dev’essere parità. Quando il Papa predica e critica, sai quanti atei e umanisti vengono irritati da ciò che dice? Le volte che vescovi, teologi e intellettuali cattolici infiorano analisi storico-sociali del tutto faziose, demonizzano secolarismo e modernità, o tagliano giudizi morali e sputano sentenze gravi su persone e costumi, senza ragioni sensate, d’autorità? Eppure, nonostante questo, è giusto che siano liberi di dire, no? È un grosso sforzo per tutti i non credenti sopportare che certe tesi che considerano indecenti siano sganciate sulle masse, immagina se fossero loro a chiedere il silenzio alle autorità religiose, per non essere urtati nei sentimenti… Ma ognuno ha diritto ad esprimersi. E a rispondere, naturalmente. Credenti e atei. Il diritto a non essere diffamati o maltrattati è totalmente conciliabile con quello alla libera espressione, nella misura in cui l’uno tenga conto dell’altro. È in questo sano scambio di tesi e dimostrazioni che si capirà chi ha ragione, chi ha torto, quanto e perché. E a chi ascolta, scegliere. Si chiama confronto di idee, ed è un pilastro della libertà moderna.
Un fastidio senz’altro, per chi ancora si diletta a imporsi, a vedersi superiore e più meritevole a prescindere, ma non per niente siamo in democrazia. Perciò smettiamola con questa protezione a priori della fede, con la domanda ipocrita di rispetto non reciproco, con le manie di protagonismo e monopolio, il mito dell’ateo intollerante, le concessioni esclusive, i guanti di velluto e la premura buonista nei confronti di una sola parte… una parte permalosa e sempre scontenta per la presunzione di essere ‘intoccabile’ e immancabilmente ‘nel giusto’, che chiama ‘odio’ il dissenso, ‘decadimento’ e ‘violenza’ l’assenza di Dio, ‘attacco’ e ‘discriminazione’ ciò che invece è ritorno a una sacrosanta parità di diritti, doveri e opportunità – in mancanza della quale i discriminati sono tutti gli altri. Questa idea, reliquia di un tempo andato continuamente tradita dalla realtà, può diventare facilmente un mezzo di pura intolleranza. La finisca con il piagnisteo e il vittimismo non appena uno si manifesta semplicemente contrario, diamine! Tiri fuori degli argomenti veri, stia al confronto, si faccia sviscerare, che pretendere o mirare a impietosire non gioca a favore di una causa. È infantile e mediocre, la fa sembrare priva di risposte adeguate; in difficoltà, più che prestigiosa; vuota, più che meritevole; viscida, più che innocente; arrogante, più che onesta… Ops? Quando si parla ci si deve aspettare che non tutti siano d’accordo, si deve ammettere il diritto di replica e accettare le eventuali, incluso il dispiacere di non vedere amate e condivise, ma avversate, le proprie convinzioni. Poi, certo, c’è modo e modo di farlo, e c’è ovviamente quel limite da evitare, oltre il quale il confronto diventa solo arrembaggio, assalto impulsivo, quindi non solo inefficace ma incivile e pericoloso. Da una parte quindi, è senz’altro giusto non infierire, dall’altra però è impossibile tacere. Una critica densa di prove ragionate, appassionata ma non esagitata, decisa ma non intrusiva, velenosa per gravità dei temi e non per astratti pregiudizi, fatta in luoghi e momenti scelti, nei modi più vari ma civili (inclusa la satira, per far ridere e pensare), verso i contenuti piuttosto che contro le persone, che chiami al dialogo e non ceda al fanatismo violento – perché illumini e non accechi – fa parte nel modo più felice del diritto d’espressione, e non merita censura di alcun tipo, mi sembra.
Anche così – nonostante questo – qualcuno forse si offenderà, è comprensibile, ma non è quello il fine. Se pesa, e però è verità, si potrebbe non leggere e non ascoltare, ma probabilmente è meglio aprirvi gli occhi, nel tempo. Far tacere chi critica, dunque? Sì, certo, ma solo prendendo in carico il problema che si illustra, ed essere – mi auguro – parte della soluzione, oppure dimostrando – con prove vere del contrario – della critica l’infondatezza, l’errore, l’irrilevanza, l’incompletezza, l’ignoranza, la superficialità, la rigidità, la grettezza, l’indelicatezza, la virulenza, la disonestà, la faziosità, l’esagerazione…

Non c’è rispetto se non è reciproco, non c’è pace se non è di comune accordo, non c’è libertà se non sono liberi tutti. Esiste il diritto ad essere rispettati come persone, a non avere le palle scassate per niente, non quello a ‘non essere criticati’ qualsiasi cosa si faccia. Che ne pensi?
Allora nessuna vergogna per le nostre idee: basta timorosi silenzi, o funambolici assensi per un fasullo ‘quieto vivere’ che non fa bene a nessuno, diciamo la nostra come non credenti, e come umanisti. Alla pari – quanto a libertà di parola – con la Chiesa e i credenti di ogni religione. Prendiamoci orgogliosi lo spazio che ci spetta e meritiamo, sia per vivere a cuor sereno e con onore la vita a modo nostro, sia per offrire ad altri l’opportunità di scegliere, sia per contribuire con stile a fare della Terra un posto sempre più bello in cui vivere insieme.
Coraggio, fuori dal guscio, sorridenti e fieri!

Chiusa parentesi. Dicevamo? Ecco, sì.
Cosa c’è davvero alla base del cristianesimo? Come dice che si deve vivere? Cosa – secondo i suoi creatori e sostenitori – dovremmo pensare di noi stessi, e cosa dovrebbe renderci felici? Guardiamo questi insegnamenti e domandiamoci: sono tutti buoni e sani? Un Dio così… può forse renderci schiavi? In altre parole: la ‘buona novella’ è così buona?
La risposta è no, ci hanno solo abituati a vederla così, per via di quelle idee virtuose che hanno ispirato tantissimo uomini e donne, e che però non sono solo ‘cristiane’ ma – più in generale – umane. Inoltre, è facile parlare di dignità delle persone e dell’amore di Dio, ma non basta: come vedremo adesso, il significato dato a queste parole è spesso sorprendentemente l’opposto di quello che dovrebbe avere. Perfezione e bellezza del cristianesimo sono un luogo comune.

Per un bel pezzo parlerò in modo abbastanza diretto di quelli che giudico grandissimi difetti di questa visione della vita. Per farti capire che aria tira ti anticipo qualcosa in poche righe.

Ecco 4 fra le idee principali: peccato di 2 su tutti, crocifissione d’innocente, lontananza intenzionale di Dio, inferno eterno. Non conseguenze naturali e logiche, ma decisioni arbitrarie. Sono accadute e accadranno per scelta e volontà di Dio. Pensaci: una qualsiasi di esse spiega perfettamente il senso distorto di giustizia del dio cristiano. Il sistema di leggi del peggior Stato della terra è infinitamente migliore del suo, principiante del foro. E nota che, da buon tiranno, si considera il nostro benefattore. Ma tu non credere che lui ti ama e marcirai all’inferno. Non è un Amore?

Che ne pensi? È arrivato alle budella? Ok. Se per te è come avere il mal di denti nel mezzo di una interrogazione di latino, non sentirti di dover leggere ora. Salta fino alla frase ‘Una bella esperienza…’. Sappi poi che nella 3a parte il tema riprende. Se invece ti va di proseguire, salta su e mettiti comodo/a.

I peccati del cristianesimo: si parte!

Intanto, oltre al messaggio originale, si possono trovare aggiunte ben strane. Ne abbonda ad esempio il cattolicesimo, per via del dominio del papato: mangiate l’ostia che è dio, scegliete voi la religione al posto dei vostri figli, i gay sono dei disturbati, le famiglie di fatto non sono famiglie, non usate anticoncezionali, il papa sulla fede è uomo infallibile…
Ed ecco che la dottrina di questo dio anziché buona e naturale diventa bizzarra, artificiosa, antipatica e difficile da seguire, ma anche incredibilmente pericolosa, come quando chiede più figli e meno preservativi in tempi di sovrappopolazione e aids. Questo a molti già basta per discostarsi da un tale modo di pensare: c’è chi passa volentieri ad altre correnti cristiane, chi sceglie un troppo comodo (e a volte ipocrita) fai-da-te (!) e chi il secondo-me (ricerca personale, bene!), chi si ricorda di credere solo natale pasqua matrimoni e battesimi, chi preferisce altre religioni, chi dubita ma non lo dice in giro, e chi invece se ne libera proprio del tutto. È già successo a tantissimi (oggi quasi il 20% di italiani è ateo/agnostico dichiarato), nonostante tv, politica, perbenisti e bacchettoni giochino a fare finta di niente. Ecco un’altra finta equivalenza, quindi: italiani=cattolici.

Ma le cose in realtà stanno peggio: per il cattolicesimo e gran parte del cristianesimo l’Uomo è tendenzialmente cattivo. Dio ha condannato l’intera umanità di ogni tempo per l’atto liberatorio dei primi 2, che giudicò disubbidienza. Da allora chiunque è un peccatore ai suoi occhi. Può aspirare a fare meglio ma senza Dio è comunque perso, e anzi va all’inferno per l’eternità. L’Uomo è importante in quanto prodotto del dio, è cattivo di fondo, è bravo se gli obbedisce, è buono per comandamento, si realizza solo nell’adorarlo, si salva per mezzo di lui anziché di sé stesso. Per la miseria, che visione riduttiva dell’essere umano!

Di più: sarebbe stato necessario un sacrificio, e un sacrificio umano, per ‘salvarci’. Ma quale etica, quale giustizia condanna un uomo giusto e innocente a pagare per i (presunti) colpevoli? Che modo primitivo di affrontare un problema, che soluzione crudele questa ideata da Dio!
E… sacrificio necessario? Ha mai migliorato niente nella storia l’uccisione cerimoniale di esseri viventi? Perché dovrebbe essere stata necessaria la vita di una persona? Come farebbe un sacrificio umano a risolvere, in che modo la morte di un singolo assolverebbe magicamente tutti gli altri? Per caso Dio non poteva semplicemente – plink! – salvarci senza uccidere un innocente? Sì, altroché. Non era indispensabile nemmeno formalmente, ce lo dice la Bibbia stessa. Proprio quel Vecchio Testamento che si vorrebbe padre del Nuovo, che si vorrebbe fondamento della necessità di uccidere un uomo innocente per salvarci, invece la rinnega: il sangue andava versato semmai sull’altare nel Tempio (Lv 17,11), tuttavia non era strettamente essenziale (Lv 5,11-13; Os 6,6; Mi 6,6-8) perché ciò che interessa a Dio è pentimento sincero e buone opere (es. Dt 4,27-31 e 15,7-8; 1 Re 8,46-52; Pr 16,6; Ez 18,27; Dn 4,27; Gn 3,10; Ml 3,7). E l’uomo può senza dubbio entrambe (Gn 4,7; Dt 30; Sal 36,27; Ez 18,21-23), senza mediatori. Nello stesso Vangelo (Mc 2,5; Lc 44,50; v. Lc 5,23-24), i peccati di alcune persone vengono perdonati e rimossi da Gesù vivo e vegeto. E dunque?
E… salvare, salvare da che? L’uomo sbaglia, ma per ragioni che chiamare in causa il ‘peccato’ nasconde. Fare dell’Uomo genericamente un ‘peccatore’ vuol dire non arrivare mai alla radice dei suoi problemi e – nascondendola – mai sradicarla, come invece è possibile. Salvare, giustificare, lavare via i peccati? Ma qui è tutto come prima, come sempre: persone che sbagliano, imparano, primeggiano…
La ‘salvezza’ oltremondana nessuno a tutt’oggi la conosce, mentre quella del mondo si chiama miglioramento progressivo e si gioca non su quanta acqua santa uno/a ha toccato ma sulle scelte che ha fatto, sul rispetto, l’empatia e la fiducia che ha ricevuto e che poi offre a sé stesso/a e agli altri. Fintanto che non daremo importanza a queste cose, continueremo a trovare soluzioni inefficaci. E la chiesa in questo è maestra… Infatti, quel singolo sacrificio non è bastato a riscattarci dal peccato – questo, nel mondo di oggi, ci balza agli occhi – e allora ecco che è necessario il battesimo precoce (solo per il neonato cattolico), più tardi l’atto di fede in venuta e resurrezione (che in realtà toglie valore a quei fatti, come se la squadra con più punti vincesse lo scudetto a patto che qualcuno ci creda) e ancora nell’autorità della gerarchia papale (sempre per il cattolico), poi il pentimento (o una serie di pentimenti), e poi però le azioni, poiché fra il credere e il fare c’è di mezzo il mare e infatti fra chi crede c’è anche infami di ogni risma… E pensare che la salvezza doveva essere un dono… ma un dono è gratis, senza condizioni! Così invece è una opportunità, semmai, non certo un regalo. Perché chiamarlo amore in-condizionato, se per averlo dobbiamo stare a tutte queste condizioni? Perché chiamarlo scanzonatamente un dono, se per averlo è stato ucciso un uomo? Sono sicuro che certa gente se ne renda conto e tuttavia lo spacci intenzionalmente come tale, ma anche che molte persone se ne siano sinceramente convinte, e non riescano proprio più a vedere che non è affatto un dono gratuito: sono abituate a per-donare questo ed altro, al loro dio.
Insomma, come ci si salva? Ma soprattutto, cosa ci fa persone virtuose qui ed ora? Eventi con la polvere di due millenni interpretati a piacere? Riti subiti in tenera età? No: se costruissimo rapporti più solidi e veri sarebbe meglio per tutti, per fare chiese c’è tempo dopo. Quella è la parte facile.

E… salvare pure noi che non eravamo nati? 2000 anni dopo, senza che la maggior parte di noi si sia macchiata di chissà quali crimini, senza che ci venisse chiesto nulla? Mettendoci davanti al fatto compiuto, ora saremmo in debito con questo uomo-dio, e due volte: una perché ucciso per noi, un’altra perché ucciso anche da noi (cheee?) con i nostri peccati di oggi (Ccc 598)!
Ma non era tutto un piano del Padre? Già: ha sacrificato sé stesso a sé stesso, per cambiare una sua idea circa una cosa che è accaduta per suo volere. E per farci salvi, ci ha voluto assassini. Bel piano!
E poi ragazzi, uè, il Gesù sapeva di morire, si è sottomesso al piano paterno, era convinto di salvare il mondo e credeva pure di risorgere in gloria… tutto questo rende la sua una sofferenza da pochi spiccioli. E a maggior ragione se fosse stato davvero un dio, che non può morire. Ma lo era?
Infine: se Gesù è risorto, possiamo forse dire che è morto per noi? Quando una persona si sacrifica poi non c’è più, solo questo significa sacrificio.

Gesù è sopravvalutato.

Il valore semmai fu nell’esempio, la condanna di un innocente che deve farci tutti riflettere sulla potenza e conseguenza delle nostre azioni… Ma una cosa simile è sempre tragica, non una sola ma milioni di persone innocenti, coraggiosi eroi e martiri impotenti d’ogni tempo, hanno sofferto tortura e morte vera, di un’agonia e un’ingiustizia ancora superiori (come i cosiddetti eretici, bruciati vivi per volere di papi). Altro che mezza giornata e poi tornare!
Invece, preti e credenti insistono ad esaltare quel solo evento, e dandogli tutto un altro senso. Lo trasformano davanti ai nostri occhi in una cosa bellissima: la misura dell’amore che il loro dio avrebbe per noi sarebbe… il salvarci da come lui stesso ci ha voluti, scannando suo figlio. Ma non è invece una cosa da brividi?
Già. Se un uomo desse da uccidere suo figlio per ‘dimostrare quanto ci ama’ lo chiameremmo fottuto criminale pazzoide e lo chiuderemmo in galera. Nel chiamare amore e giustizia un simile evento, rivoltiamo a testa in giù il significato di questi splendidi valori.
Dio buon padre… come no! Questa morte non prova affatto l’amore del padre per noi, ma solo la passione del figlio per la sua convinzione sul padre.
Ancora: ma è un padre buono uno che non ci parla mai direttamente? Che ci lascia a chiamarlo soli nella notte, a spremere risposte e calore dal silenzio? Che si fa pregare in ginocchio, pur conoscendo bene le nostre necessità? Che ci lascia nel dubbio costante delle sue intenzioni, del suo aiuto, e della sua stessa esistenza? Un vero amico non si fa pregare, non si fa attendere, e non mette alla prova il nostro dolore. Non c’è dialogo fra noi e lui, solo il monologo di chi ci vuole credere, e risponde al posto suo. Dov’è l’affetto vero, la presenza concreta, la stima manifesta, la comunicazione diretta, di un buon genitore? Non solo non è una forma di amore, ma è una forma di abbandono.
Se un simile dio esistesse sarebbe un pessimo padre, lontano e assente con la scusa di lasciarci libertà, che non aiuta e non si spiega con chiarezza, che ha i suoi preferiti non in chi si comporta bene ma in chi crede senza averlo mai visto, che non ci è vicino davvero se non nel forte desiderio di chi crede… e più ci crede più crede di sentirlo vicino, più lo sente vicino più crede di vederlo nelle cose, più lo vede nelle cose più ci crede.

E intanto lui bel bello esige di essere amato e adorato per comandamento. Così, a conferma della distanza che ci separa, il semplice non credergli diventa un peccato estremo. Quanto estremo? Si condanna a un infinito inferno 2/3 della popolazione mondiale (oltre 4 miliardi di persone) non per demeriti ma per il solo fatto che non è cristiana. Non è questa la stessa assurda violenza scatenata su ‘gli infedeli’ per la quale condanniamo il terrorismo di matrice islamica? Oggi questo è inaccettabile, perché esistono reazioni più efficaci della minaccia violenta, e pari diritti inalienabili al di là della fede.
Non bastasse, mentre questi miliardi se ne vivono tranquilli – e in particolare quelli che non hanno né dèi né religioni – vengono identificati con il ‘male’, assoggettandoli a un giudizio insultante, a pubblica discriminazione, e alle loro conseguenze sociali. Ma… che generalizzazione gravissima e ingiustificata! E naturalmente non è mica colpa di Dio, poverino, ma di chi sceglie di non amare un tizio del genere… Nemmeno del credente, certo, perché lui – senza neanche un piiiizzico di ipocrisia – odia il peccato ma ama il peccatore. Se questo è amore…
Con o contro, credente o nemico, che squassante esempio di un ragionare senza vie di mezzo, per bianchi e neri tagliati con l’accetta! Come se davvero i credenti fossero tutti buoni e bravi, se anche fra loro non ci fosse sporcizia… E infatti poi è tutto un peccare e confessarsi, ma allora perché idealizzare la fede quando si parla di ateismo? Si dice che l’inferno sia la conseguenza ovvia del non credere. Ma chi l’ha resa una opzione possibile, in primo luogo? Chi condanna solo per avere le credenze religiose ‘sbagliate’? Chi giudicherà? Si crede che «Dio ama». Ma chi ama pretendendo di essere contraccambiato? Chi dà la vita allo scopo di essere adorato? Chi punisce, per non essere stato amato? Se questo è amore…
Di questo dio, oltre che provare l’esistenza, è necessario provare la benevolenza.

Uhm. Anche Dio è sopravvalutato.

L’assenza è presenza, la sottomissione è amore, la morte è vita… quale sublime rovesciamento della verità!
Una tale visione di vita non aiuta la fiducia, la tenacia, la fierezza, la passione, il talento e la forza interiore a nascere e amorevolmente crescere in noi, meravigliosi mortali di questo mondo!
In questo senso la trovo davvero poco confortante, deprimente, frustrante. Tu che ne pensi? Si basa su un senso di bontà e giustizia capovolto, oltre al fatto che dà precedenza alla fede (né più né meno degli altri culti), così limitando ricerca e valutazione critica; che basa la sua morale su dogmi anziché su sentimenti; che prende la vita di un uomo e la spoglia di ogni imperfezione; che spinge all’imitazione di essa anziché alla scelta personale dei valori da vivere (una differenza smisurata)…
…Oltre al fatto che benedice la povertà e la sofferenza, e affretta non solo a sottomettersi all’autorità quale che sia, ma ad amare chi ci fa del male…
…E oltre al fatto che ha come simbolo un uomo morto o sofferente (non tutte le confessioni: gli Evangelici puntano sull’idea di resurrezione e usano la croce vuota); che separa il corpo dall’anima e apprezza solo la seconda (e a certe condizioni); che giudica la bontà delle azioni più per l’effetto su un aldilà che sul nostro aldiquà; che dubita delle qualità delle persone, e quando invece dimostrano di farcela non cambia opinione su di loro, ma si complimenta con Dio per averle segretamente aiutate (pugnalandolo due volte, pover’uomo!)…
…E che metterà sempre la sua fede e la ‘parola di Dio’ al di sopra del bene per l’Uomo e il suo mondo. Fra la sua e la nostra volontà, va fatta la sua… per il nostro bene? Ma è la sua volontà. Sempre a proposito di dignità umana!
Questi sono tutti cartellini rossi da espulsione, autogol da paura. Uno solo basta a perdere – in finale – la coppa del mondo di perfezione.

Quando si dà priorità all’idea di un dio, la si toglie inevitabilmente all’essere umano. Una dottrina che insegna questo non punta sul serio alla nostra felicità, perché si affida a Dio per conoscere la nostra interiorità, i nostri bisogni e nostri limiti, e fa del suo volere il nostro dovere, della sua idea di bene il nostro bene. Questi sono difetti profondi dell’ideologia cristiana, secondo me.
La mia opinione è che sia un falso e un fallimento. Quando una filosofia di vita insegna cose così, diventa un generatore automatico di burattini felici. Di confusione emotiva, frustrazione, distacco, ottusità, diffidenza e dolore gratuito. Anche di forza, impegno e speranza, ma a che prezzo? Ed è triste che sia considerata il lasciapassare per un paradiso, non per niente postumo. Ritengo che adattarsi a queste premesse, e fare il bene dell’Uomo in modo compiuto, leale e rispettoso, siano due sforzi inconciliabili.
La visione dell’essere umano che il cristianesimo – il cattolicesimo, ma anche certe frange protestanti, in modo più marcato – ci chiede di accettare, unica morale, unica virtù, unica certezza? In effetti è evidente che non è così: non sembra più tanto bella, né tanto universale, vero? C’è poco spazio per una vera, spontanea, completa realizzazione di noi stessi, se la base è una scarsa fiducia nell’essere umano come tale. Non gli si rende giustizia: se davvero questo modello del mondo fosse vero, sarebbe tutto uno spiegare a Dio che non siamo poi tanto male, e che lui si dà fin troppe arie… Alcuni si disegnano un dio fatto così, vogliono credere che un Genitore dev’essere perfetto al punto da giustificarne gli orrori, che per il suo amore distante vada ripagato con adorazione incondizionata. Invero, questo brutto gioco alla dipendenza non è un dovere. È inutile spostare al futuro la nostra voglia di giustizia e pace, è adesso che dobbiamo impegnarci a realizzarle. E non in funzione di un vendicatore onnipotente ma dall’alto delle nostre meravigliose qualità.
È tempo di dire che siamo noi gli eroi di questa storia.

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Non in tutte le forme di cristianesimo questi errori sono tanto netti, ricordiamolo. Inoltre vi sono religioni con idee veramente diverse, e certamente vi sono credenti di grandissima intelligenza e apertura mentale, di estrema sensibilità, liberali, moderati, che in nome di un dio davvero aiutano il vicino o il genere umano, e altri ancora che con semplicità riducono tutto a un tenero «Dio ci ama, la vita è meravigliosa!».
Malgrado questo però, la dottrina cristiana ideale che abbracciano non è tanto candida né così semplice, nei fatti: l’idea di un dio che intende regnare, un dio al quale è dovuto l’amore e che ha gestito la sua presenza nel mondo attraverso sacrifici umani, etica a soqquadro, cattiva gente di fede, indottrinamento precoce, silenzi glaciali, messaggi incompleti e segni interpretabili, ecco è questa stessa idea di fondo a mancare di bellezza – perché chiama ‘desiderabile’ e ‘ispirato’ e ‘doveroso’ qualcosa che non lo è affatto.
Certo un paradiso, e l’amore perfetto di un essere perfetto… eh? Ma di entrambi non ci sono prove, e allora quanto sono reali e quanto invece solo immaginati, voluti, sperati, inculcati, lasciati credere? Nel cristianesimo c’è chi accetta e sottostà a tutto questo? Almeno non se la prenda con chi lo considera scandaloso inciampo interiore. Thanks.

~ ∞ ~

Che tipo di amore intende, dio? Troppo spesso un amore molesto.
Amore… molesto? Quel modo di amare alla base di certe relazioni in cui c’è chi si vede superiore e pressoché perfetto/a, ritiene una fortuna (del tutto immeritata) lo stargli vicino, e un incredibile privilegio essere da lui amati. E fa eterne promesse di felicità, ma intanto offre minuscole dosi di invisibile affetto; chiede continue prove d’amore, ma concede una fiducia insignificante; lascia tanta libertà… da usare con lui e per lui solo; si dà arie da grand’uomo, ma non sopporta le critiche; si dichiara innamorato ma non c’è, non si adatta, non ascolta e pensa di avere sempre ragione; si dice immensamente benevolo, ma non si chiede se così siamo felici, lo dà per scontato; si crede autosufficiente e disinteressato, ma senza l’amato si sentirebbe umiliato e furioso.
Sì, c’è chi ama in questo modo, come purtroppo scopriamo quando in un rapporto l’abuso all’improvviso emerge e diventa fatto di cronaca. Solo che non si tratta di un singolo episodio di follia, ma dell’ultimo di una intera storia d’amore. Un amore che chi abusa crede essere perfetto, sì, perfetto perché ogni critica a lui diventa un nostro difetto; incondizionato, sì, incondizionato alle sue condizioni; gratuito, sì gratuito ma obbligato, e da risarcirgli in obbedienza sonante; totale, sì, amore totale ma senza il rispetto totale che viene dal mettersi in gioco anche lui; ideale, sì, ideale perché la realtà in cui vive è un’altra; certo, sì, certo perché malgrado le ferite ce lo riprendiamo sempre indietro; unico, sì, unico perché se scegliamo altro lui stesso ci castiga di brutto. Agli amanti chiede qui e ora totale ed esclusivo abbandono, scoraggiandone l’autonomia con la forza, e invero più spesso con l’intimidazione, il confronto, il comando, il giudizio, il vittimismo e la sorveglianza costante, che sono un altro tipo di forza: il senso di minaccia incombente è una spada di Damocle sospesa ad un palmo dal nostro sé, e già sufficiente ad ottenerne il controllo. Lasciati guidare da me – dice – lasciati usare, fa’ scegliere me al posto tuo, fatti dire cosa fare. Cedimi il tuo corpo e la tua anima, obbedisci, piegati, sta’ indietro. Io sono il tuo capo, il tuo re, il tuo dio, e tu, senza di me, non sei nessuno. O con me o niente. Se vuoi essere felice, questo è l'unico modo. L'ho deciso io. Ed è ovvio che, se non vuoi stare con me, allora vuoi soffrire, perciò aspettati una punizione. Colpa tua.
Ed essi accettano, convinti di valere quasi nulla, e dunque contenti di essere amati per tanto poco. Vivono il rapporto accontentandosi e sopportando ogni sua pretesa, adattandosi senza chiedere niente, tentando senza posa di capire i suoi silenzi, compiacere i suoi vezzi, dare un senso ai suoi vizi o scordarsene… Vivono dei ricordi migliori, piangendo lacrime di autostima, felici per la più tenue carezza, e pronti per essa a perdonare tutto. Sono gonfi di senso di colpa per azioni e pensieri che potrebbero deluderlo, di paura di farlo arrabbiare, ansia di accontentarlo ad ogni costo, completa dipendenza dal suo volere, sottomissione emotiva, timore di perdere il suo amore e di esser(ne) puniti… Solo per sentirsi dire che se va male è colpa loro, non danno mai abbastanza. Il senso di inferiorità è divenuto un riflesso istintivo, inconscio, nato per lento condizionamento e coltivato per immersione nell'unica pratica che non sembri a tutti infinitamente egoista: adorarlo. E anche la paura – della reazione, dell’ira, della punizione – si è fatta parte di loro. La minaccia emotiva di solitudine e privazione dell’amore, e quella fisica di pene letteralmente infernali, bastano a illudere i sensi e la mente con un numero da due soldi. A nutrire, sporcandolo, il sentimento d’amore.

Sono alcuni tratti caratteristici dell’amore abusivo, relazioni tossiche fatte di aggressività attiva e passiva, di molestie e manipolazione, di minacce implicite, di violenza morale che giorno per giorno si abbatte sull’anima, e che prelude a quella sul corpo. Vero amore, vero abuso. Gli esempi dalla vita reale si sprecano.
La vittima, pur di vivere le occasionali gioie del primo, sopporta i sistematici estremi del secondo. Chi tormenta, invece, più che altro non vede dove sia il problema. Affamati di un amore instabile, entrambi credono che amare così sia ovvio e giusto, dolore necessario come sempre, insoddisfacente ma inevitabile. Si cercano. E poi tendono a restare insieme, come se la relazione (e la felicità) non debba e non possa fondarsi su altro. Gli uni, giganti ciechi, pensano di non fare alcunché di troppo sbagliato, gli altri, fiori su una terra arida, fondano il rapporto sulla resistenza anziché sul benessere, incapaci di dare a sé stessi il rispetto che sentono di dovere all’amato. Sono prigionieri di un copione appreso, inconsapevolmente recitato, e destinato a ripetere e ripetere sé stesso. Ed ecco perché è difficile per essi – per entrambi – capire, distinguere, giudicare, rifiutare, liberarsi. Guarire. Io penso che nessun adulto sarebbe tanto debole, né tanto violento, se non avesse appreso ad esserlo. È qui che torna in gara l’esperienza di quando eravamo bambini: se l’amore ricevuto o gli esempi trascorsi furono dello stesso tipo, e – indifesi – abbiamo dovuto patirli, accettarli, sopportarli a lungo fino alla rassegnazione, in quel momento abbiamo perso gli occhi, e il nostro cuore ferito e muto continuerà a cercare un amore uguale. Folle inclinazione.
Virus. Emotivo. Appreso.
Amore molesto… Pretese deliranti, tipico ed esemplare rapporto disfunzionale, di quelli che quando li vedi in un film o capita all’amico/a del cuore ti fanno gridare «Ma che bastardata!», e anche «Cavolo ma non ti accorgi che ti fa solo del male? Mollalo dai!». Ma quando ti capita, quando ci sei dentro fino al collo perché anche tu hai quel virus, no, non ti accorgi. Solo, speri.
Quando accade, è triste. Nella coppia, fra genitori e figli, al lavoro e altrove… Se poi Dio stesso vi pone il suo doppio sigillo – in quanto non solo autorità garante, ma archetipo perfetto – questo modello di relazioni morbose e sbilanciate acquista una grandiosità solenne e ancor più devastante. Chi avesse riconosciuto in questa sintesi il sottofondo della propria fede – la trama nascosta su cui si forgia la gioia della rinuncia a sé stessi – sa che anche con un dio si può instaurare un rapporto del genere, e se è vero che dipende da ragioni inconsce, diventa chiaro come sublimare la figura dell’amato che non ci amò in quella di un amante inesistente abbia una sua logica perfetta.
Certa religione – certe persone – ammirano e insegnano questo tipo di rapporto? Sì, lo fanno, e tanti ci passano la vita. Per essi dev’essere così, e avendo già accettato di patire non possono che vantarsene, lo strano diventando chi lo trova strano. Un credo preoccupante, dai risvolti anche drammatici, che è legittimo non gradire per sé stessi, e anzi ritenere tutto fuorché buono, santo, necessario o universale, se nei fatti proprio non lo è. Sono scelte di vita, mica pizza e fichi.

Il sistema è una gabbia costruita su misura, e solo dal suo interno può sembrare il mondo intero. Ma non è il paradiso, e fuori, l’inferno non esiste.
È bello rendersi conto che è una terribile forma di amore; bellissimo sapere che noi non siamo tenuti a starci dentro né a tollerarla per un solo secondo, neppure se offerta con la bianca apparenza del ‘dono’. Né siamo in alcun modo obbligati a contraccambiare. Certo, secondo chi abusa sì sarebbe un dovere, ma è il suo punto di vista. Il suo limite. Il suo problema. Il suo inferno.
Oggi, molte persone coinvolte come parte debole in questo tipo di relazioni stanno prendendo coscienza che è terribilmente ingiusto, tanto da maturare più spesso la volontà e il coraggio di interrompere la corrosiva dipendenza. Non facile, perché separandosene ci si espone ai reali rischi di una reazione brutale da parte di questi (crimini da cui oggi la legge specificamente protegge), secondo la logica patologica di un castigo ‘voluto e meritato’. Ma anche per una seconda ragione forte: più questo accade già in famiglia e uno/a cresce convinto/a che non merita altro, che l’amore non è che questo, tanto più gli/le sarà dura riconoscersi vittima di un genitore, o tutore, e poi di un partner, o di un dio, ossessivo e dispotico. Non facile, ma possibile. Non facile, ma più facile per loro che per chi abusa, perché la sofferenza quotidiana è una goccia, e le gocce riempiono il vaso.
Alla larga! Viva le relazioni e gli amori basati su uguali diritti e reciprocità!

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Il problema qui non è credere che un dio esista. È un diritto garantito, il poter credere quello che ci pare, con o senza prove. E se questo ispira benessere e favorevolissime imprese, crescita interiore e fruttuosi scambi in tutta amicizia, tanto meglio… Ma che sia per scelta! Scelta vera, maturata, informata, sentita… libera da catechismi precoci, debolezze indotte, pregiudizi e interessi personali… E punti al nostro benessere profondo, con grande rispetto.
Una visione di vita che consenta questo, qualsiasi essa sia va benissimo.

«Quanto chiacchieri! La fede si sceglie con il cuore, non con la testa!» Ah! Bella anche questa affermazione-trappola: si fa sembrare buono e giusto chi ‘sceglie col cuore’, freddo e superficiale chi osa riflettere. Ma le cose non stanno così: scegliere per istinto, nel vortice di una passione o a cuore indottrinato è un ottimo modo per fare grandi stupidaggini… mentre ascoltare le emozioni, capirle e valutare i pro e i contro di una cosa è un riflettere profondo ed efficace. Ancora una volta il senso dato alle parole è sbagliato, e la confusione – interiore – segue.
Benefici arrivano quando cuore e ragione si muovono in armonia dentro di noi!
Come la vedo io? In realtà è un modo per dire che sulla fede non si deve né riflettere né ascoltare col cuore, per capire se è in sintonia con il nostro essere: si alzi bandiera bianca, e semplicemente ci si ‘abbandoni’. La più antica richiesta delle religioni, nata con il primo sacerdote: abbandonarsi, cioè lasciarsi andare, ma anche trascurare e rinunciare a sé stessi, rinnegarsi, perdersi, farsi condurre, dipendere. Una richiesta non da poco. Abbandonarsi? Anche quando il cuore dubita, e la ragione ci dice di usare prudenza? No! Se per caso fosse una cosa brutta da credere, il nostro benessere ne morirebbe. All’esame, dunque! E se all’esame di un cuore non condizionato e di una ragione allenata – che non è affatto a priori contro il soprannaturale, né fredda, ma anzi appassionata, curiosa e attenta – una religione si rivelasse non contraddittoria, etica, storica come dice, valida in sé e universale, ebbene quella stessa ragione e quel cuore si farebbero più che disponibili a un fiducioso abbandono. La fiducia è essenziale, e la fiducia si costruisce piano piano. Solo se scopriamo che possiamo fidarci tanto, allora abbandonarsi sarà meraviglioso… non al sicuro da delusioni, ma almeno si parte col piede giusto. Dalle religioni spesso invece l’imperativo ad abbandonarsi arriva immediatamente – prima di aver potuto capire e sulla fiducia verso chi già crede – e non è un caso: ad approfondire il loro credo e la loro storia vengono fuori tante di quelle difficoltà che fidarsi e basta, dopo, è molto più arduo.

‘Abbandonandosi’ ci si può accontentare di tutto, anche della felicità contundente delle droghe o dell’alcol, piuttosto che di quella di una setta qualsiasi. Sono convinto che ad esse nessun cristiano vorrebbe ‘abbandonarsi’, e verificare gli sembrerebbe la cosa più naturale del mondo. E allora perché gli viene di chiederlo quando tocca a lui?

Il punto è veramente importante, dal momento che – distrutte e inservibili le prove razionali dell’esistenza di un dio – questo è l’argomento finale, ciò che resta a giustificare la fede, insieme al sempre debolissimo ‘dio degli spazi vuoti’ (v. dopo). Dio, improvvisamente, diventa qualcosa di troppo oltre. Oltre la ragione. Ma a quanto pare non troppo oltre il cuore. Meglio se innocente e disarmato. Lascialo entrare da lì, e vedrai che arriva pure al cervello. Beh, niente di più facile. Dio come esperienza mistica, incontro emotivo, colloquio interiore… Dio negli ammalati e nei perdenti, nell’altruismo e nell’amore… Chiaro perciò: non è mai Dio in persona che si incontra. Gli dèi non si manifestano che nelle cose umane. C’è da meravigliarsi se c’è chi non vi vede altro che quelle? L’abbandono alla fede, che tutto crede e tutto interpreta, finendo per auto-rafforzarsi, è la chiave per il mondo degli dèi. Come fosse una forma di conoscenza, più profonda e quindi più affidabile. Uh… Profonda, senz’altro. Ma ‘forma di conoscenza’?
Se un dio si potesse sentire nel cuore con esclusiva certezza, perché servirebbe fede? Perché in questi dialoghi a una voce, in questi incontri clandestini fatti di segnali anonimi e intensi fremiti fisiologici, dovremmo vedere un dio? Cos’è tutta questa sicurezza nell’abbandono di sé a qualcosa di tanto vago? All’idea di un’entità muta e invisibile che esiste solo se certe sensazioni personali vengono così interpretate? E se non lo facessimo?
Inoltre: la cultura del Paese, le pressioni familiari, il bisogno presente, il candore, l’errore logico, la fretta, l’ignoranza, la paura, il sogno, l’indottrinamento precoce, la consuetudine, la convinzione personale, l’affannosa insoddisfazione e la disperata ricerca d’amore, queste e altre sono leve potenti, continuamente capaci di influenzare fortemente la comprensione di un’esperienza, di filtrarla e condizionarla e trasformarla in altro. Ne siamo consapevoli? Possiamo escluderle tutte? Non sono invece pratiche frequenti, in una fede, a maggior ragione se ‘ci si abbandona’ ad essa per principio, mollando le redini di razionalità e coscienza? Su queste basi, quante volte avremo sbagliato? Emozioni forti… sarà dio?
La fede insegna che la verità non ha bisogno di prove, che può essere semplicemente raggiunta grazie a pensieri, emozioni, notizie e dogmi dottrinali che non necessitano di verifiche e conferme. La forza della convinzione che ne scaturisce può essere tale da accecare. Detto così, sono convinto che ognuno vi riconosca un metodo fallimentare di ricerca, che lo rifiuterebbe per sé e non sarebbe affatto felice di sapere che i suoi figli e i suoi cari vi facessero affidamento per difendere ciò che credono: spiegherebbe loro con decisione che qualsiasi tesi si voglia sostenere dev'essere degnamente corroborata, e li incoraggerebbe di cuore a ragionare meglio affinché non cadano in facili illusioni.
Ma da dentro il mondo della fede – di ogni fede, religiosa o ideologica – si smette presto di considerarla una necessità, come di chiedere agli altri e innanzitutto a sé stessi che il proprio credo si conformi e aderisca alla realtà, quale essa sia.
Ammesso dunque che esista la possibilità di un contatto con gli dèi, e pur non volendo cassare a priori ogni batticuore, è incomprensibile come esso debba passare per reazioni soggettive tanto umane e impastarsi con espedienti psicologici così rischiosi. E che questi non vengano apertamente espressi e calcolati, al fine di evitarli, quando si fa o si invita a fare l’esperienza di fede. E anche che questa debba essere l’unica via – per natura debole e inaffidabile sul piano della verità, ma facile e seducente su quello emotivo – non a caso al servizio di ogni diversa religione al mondo, fino all’ultima settucola, dal tempo che fu. Ma tutto quadra se la consideriamo l’ultima spiaggia di una fede che non ha niente in pugno, e tutto quello che può fare è trasformare ogni cosa in segni d’altro, esaltando la necessità di un abbandono rapido e romantico – irrazionale per definizione e per scelta – al fine di trovarsi un senso.

«Se pregassi, Dio ti ascolterebbe!» Se Dio ascoltasse, non ci sarebbe bisogno di pregare. Se conosce il nostro cuore, i nostri problemi e bisogni, perché si farebbe pregare? Così sembra più vicino a supplicare che a chiedere. È proprio questo che vuole? Che carino! Quando una preghiera viene ‘esaudita’, o quando succede una cosa buona per la quale ringraziamo Dio, perché non osservare il percorso all’indietro? Scommettiamo che non è successo nulla di magico? Non una cosa si sarà mossa senza una ragione naturale, conseguente a una ragione naturale, conseguente a una ragione naturale. Quando un attaccante segna un gol, la palla gli è volata da sola sul piede? O è frutto di un’azione che parte da fondo campo? Anche il gol più spettacolare, così come la coincidenza più incredibile, è la fine di una azione, il risultato di forze, di leggi fisiche, di decisioni, di intuizioni e movimenti in una precisa successione di eventi, a riflettere sulla quale viene naturale capire che né dèi né maghi vi hanno avuto a che fare.
E poi, ma siamo davvero sicuri che una cosa buona sia buona, e una cattiva sia cattiva? Spiego: ti è mai capitato che da una cosa che pensavi cattiva, sia in seguito derivata una cosa molto buona? E il contrario? Infatti. Quando ci capita qualcosa, possiamo gioire o piangere a seconda di com’è, ma non possiamo prevedere cosa ci porterà in futuro. Se dal bene segue un male, era una grazia di dio? Se dal male segue un bene, era satana? Non possiamo saperlo. E allora perché maledire l’uno e sentirci in debito con l’altro?
Per rigirare il dito nella piaga: hai idea di quanti miliardi di preghiere restano inascoltate ogni giorno? O forse dio le sente, ma poi non le esaudisce. Quindi non è sicuro che pregare funzioni, o tutti quelli che lo fanno sarebbero felici e contenti, benestanti e sani. Nonostante la fede, la preghiera non serve, dio fa comunque come gli pare. Oppure, magari, non esiste?
«Caro Dio, ti prego fammi la grazia che ti chiedo. Se decidi di sì, però, ti prego anche di dirmi che sei stato tu. Altrimenti come faccio a dirti grazie?».

Fin qui, tutto chiaro, mi pare. Ne scriverò ancora un po’.

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Non solo l’essenza di questo approccio alla vita può soffocare e mortificare, ma spesso lo fa in modo da apparire innocente e persino attraente, tanto da venire accettata e promossa come liberazione anziché riconosciuta e scansata quando produce mentalità ristretta e acritica, avvezza all’ubbidienza, alla colpa e alla paura. Se a questo aggiungiamo che non c’è prova che sia tutto vero, si può capire quanto sia furba la trovata di abituare un popolo all’esistenza di un essere perfetto che li giudicherà: grazie ad essa è più facile governare lo spirito delle persone innocenti, che si sentiranno spesso in colpa e in dovere anziché libere, buone e capaci. Ed è più facile tramandare la cattiva abitudine di difendere ad oltranza i nostri capi del momento, e prepotenti d’ogni tipo, fino a non accorgersi che – anche quando si dicono protetti da quegli dèi di cui mai hanno fornito prove – in quanto umani possono sbagliare eccome. E quando giurano di amarci e ci aiutano magari molto, ciò non li rende perfetti in tutto il resto, né deve impedirci di notare gli eventuali errori, e di chiedere (esigere) di non farceli subire: ne abbiamo il diritto, è una questione di rispetto.

Se c’è amore ma non c’è rispetto e stima, qualcosa non funziona, e qualcuno è destinato a soffrire.

Quando ci sono di mezzo fede e dogmi, paradisi e giudizi universali, esseri perfetti ben nascosti e loro ambasciatori umani, il rischio che sia una messinscena di chi cerca o potere o consolazione è sempre molto alto. Meglio allora capire il senso vero che chi insegna dà alla sua fede, perché a volte non c’è traccia di cattiveria nei loro gesti, e altre volte invece credono che il loro dio li sostenga mentre fanno cose repellenti.

Di nuovo: non tutte le forme di cristianesimo lasciano tanto poco spazio alla persona, il cattolicesimo delle alte cariche non è lo stesso di quello popolare, il quale a sua volta non è l’unica varietà di cristianesimo – ve ne sono di molto più rispettose e aderenti alla bibbia tra cui scegliere, e altrettanto autorevoli. E tuttavia, purtroppo questa particolare visione generale dell’uomo sembra l’anima di ognuna, magari appunto in versione moderata, inzuccherata.
È una visione che toglie all’Essere umano la sua propria dignità, o – nella versione dolce – che la esalta solo in quanto prodotta dal dio e misurata dai suoi gregari. Dunque una che non per forza lo libera, che non lo aiuta a capirsi e realizzarsi se non obbligatoriamente lungo dei binari, e a tale scopo fa pubblicità a sé stessa prima inventando gravi problemi (come la tendenza innata al male e diavoli tentatori) e poi creando dipendenza da un dio e da una chiesa quale modo (errato) di risolverli.
Così per esempio se uno/a sbaglia è perché è cattivo/a, ma se fa bene è grazie Dio. Saremo salvati (forse) perché peccatori a priori. Abbiamo dignità solo perché a immagine di Dio. Siamo fratelli non perché tutti umanità, ma perché Dio ci è Padre, siamo uguali non per diritti e facoltà, ma al Suo cospetto. L’ostentata parità non è politica e sociale, ma banalmente concettuale, ‘spirituale’: donne e madri restino sottomesse all’uomo e al marito, i figli ai genitori, il popolo ai governanti; poveri schiavi o padroni potenti e liberi non importa, non è grave, è comunque una Grazia – e poi non tocca a noi giudicare. Caste, privilegi, ruoli e discriminazioni non sono aboliti ma esaltati e giustificati come sono, dignità e democrazia non sono chiamate in causa ma esplicitamente trascurate e omesse. Non è l’uguaglianza fra di noi che interessa, ma l’unità della massa in Dio.
Il Suo volere diventi la sola legge, il mondo intero il Suo regno, la Sua soddisfazione il nostro unico desiderio. Allora una cosa è buona se lo è secondo la sua opinione – quali che siano le effettive conseguenze su di noi – e un’azione o un pensiero non conformi vanno confessati in ginocchio, elemosinando il suo perdono a colpi di ‘pietà!’ e ‘non son degno!’ – come se contasse più questo che ripararla davanti a sé stessi e agli uomini. Siamo liberi, ma liberi di sottometterci. Da quel momento non lo siamo più! Abbiamo rinunciato alla libertà, respinto la responsabilità delle nostre azioni, accettato di soffrire, di sentirci colpevoli e incapaci, e persino di amare chi per primo così ci vede, sia esso un padre, un compagno, un superiore, un vescovo, o Dio. È diventato normale.
E come apprezzare il suo sentimento per noi: creati per adorarlo e ubbidirgli, si aspetta che ci adeguiamo, per fede, in attesa di vederlo solo in cielo e soltanto per ricompensa. Nell’inaudita evenienza che non ci interessi è pronto a ricordarci che il resto è un infinito tormento, e non mancherà di darcene prova. Vogliamo chiamarlo amore?
È una misera un’idea, ma quanto credito e quanto potere le diamo! Fino a crederci, a farci trascinare, fino a provare sentimenti per questo Dio invisibile, padre innaturale e snaturato, signore e padrone ubriaco di sé. Non importa, lo amiamo più di tutto, più di noi stessi; e perché non ne dubiti, più esaltiamo lui più ci consumiamo noi, sbriciolando ogni giorno la nostra stupenda essenza nella convinzione di essere inetti e inutili, peccatori ostinati e cronici, passatempo del diavolo, cercatori pazzi, candidati per l’inferno. Per alcuni questo diventa un macigno, un turbine di cattivi sentimenti che si agita dentro come mazza ferrata. Per altri, la scusa perfetta della loro freddezza interiore. Altri ancora hanno interiorizzato tanto bene questo arido ritratto, che sono felici di essere amati nonostante tutto, pur se in quel rapporto essi sono servi, arnesi, comparse, ancora e sempre in bilico fra l’amore e la solitudine, la stima e il disgusto, la libertà e la colpa. Nel più austero silenzio finiscono per trovare un balsamo ideale per il loro cuore, pronti a cogliere nel più vago segno e nel più lieve stupore l’eco e la conferma di facili promesse. Dolci esseri impauriti, bisognosi di un amore vero e di una giustizia che sembra sempre sfuggire, preferiamo illuderci d’averli e smettere di soffrire, al punto da farci bastare un’ombra, perfetta come solo un sogno può essere.

Quando è così, noi stessi facciamo diventare centrale Dio: parrebbe allora che senza di esso un uomo non possa essere buono, né essere felice, e che la vita stessa non avrebbe senso… Gesù, pensaci tu. Dio, sia fatta la tua volontà.

Dipingendo un quadro di noi con i colori spenti del pessimismo abbiamo immaginato un essere senza alcuno dei nostri difetti – noi colpevoli dei più disparati illeciti, in ogni caso potenzialmente capaci di compierli, certamente imperfetti e comunque morituri – e poi commesso l’errore di misurare la nostra grandezza con quello. E cosa può venire fuori, da un tale forzato e illusorio parallelo, se non un netto senso di inferiorità e l’impotente fatica verso un irraggiungibile ideale? Ah, se questa non è violenza: instillare paure e colpe, confondere le emozioni, battere e ribattere sui difetti, farci sentire infinitamente deboli – e insieme superbi – distrarci dalle infinite potenzialità umane, abituarci a un amore astratto e alla concreta sottomissione, esigere un altruismo sfrenato che passi per il sacrificio di sé, reputare il mondo una tentazione e una prova in attesa della vera vita…
Quando questo accade, ritengo venga fuori la parte peggiore del cristianesimo.
Una violenza più sottile, mentale ed emotiva che fisica, a volte eseguita in buona fede e a volte no ma non meno gratuita, meno ingiustificata… Né meno dannosa, vista la sua capacità di pesare malamente sulla vita, con il vantaggio di non essere riconosciuta causa di quel peso. È questo un aspetto peculiare di grandissima parte del cristianesimo moderno, che ha rinunciato alle spade e ai roghi di un tempo, ma non alla malizia e alla manipolazione della verità e delle coscienze.
I metodi affatto nonviolenti con cui oggi riesce a propagarsi (catechismo infantile, pressioni familiari e sociali, scienza bricolage, prelazione sull’etica, apologia dell’abbandono di sé alla fede, propaganda vecchi stampo e TdC a saturazione, favori politici, affarismo, ecc.) rappresentano un doppio problema ad alto rischio: noi tutti, infatti, siamo già d’accordo sul principio che l’aperto fanatismo è un eccesso, che il terrorismo è sbagliato, e siamo già uniti nella loro condanna, pronti a difenderci da quelle fazioni religiose e politiche che scelgano la via della repressione nel sangue. Ora dobbiamo pensare al processo di formazione di certe idee nell’animo delle persone. Preoccuparci dei metodi e dei contenuti del proselitismo, e in particolare dell’indottrinamento delle giovani menti.
È questa la causa e l’origine, poi le bombe scoppiano, poi i diritti cadono, ma la prima vittima è stata la coscienza di qualcuno. La vera guerra si combatte sul fronte della formazione e dell’informazione. Quando il cristianesimo si unge di smalti colorati, e con aria pacata e intellettuale si maschera da baluardo del bene, per poi insegnarci con splendida retorica ad adorare e temere un dio invisibile come sudditi (s)graziati e irresponsabili, dipendenti e soli, in dovere di obbedienza e incapaci di provvedere a sé stessi, in fuga dall’inferno attraverso un altro inferno, interiore, allora il suo messaggio acre ci arriva dritto dentro ed esplode, mentre lo celebriamo con tutti i suoi difetti e lo lasciamo penetrare ovunque, da benvenuto, a condizionare persone, famiglie, governi, intere società.
Nutrendoci dei suoi miti e dei suoi limiti, diventati al rovescio verità pregiate, finiamo per viverli come la più naturale delle cose, ombra di noi stessi, contenti e consolati, in parte, da un mondo che non c’è. Se è così, come mi pare di aver chiarito bene, allora questa religione è tutt’altro che disarmata e innocente, ma coprotagonista di un sistema sociale corrotto, e l’opera di raffinata persuasione, di inversione di senso, di manipolazione dell’apparenza che fa da scudo alla solita bulimia crudele di potere e tornaconto per pochi, la rende 2 volte un problema. Su cui a ragion veduta è più che opportuno scrivere, scrivere, scrivere.

Fissi con lo sguardo in alto, mentre guardiamo il cielo senza risposte, la terra si agita e ci chiede aiuto. E noi, col torcicollo, aspettiamo la felicità.

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Non conosciamo tutto dell’universo… Ogni giorno scopriamo indizi misteriosi e penso sinceramente che ci riserverà sempre meravigliose sorprese… ma non sono queste qui, mi dispiace. Queste sono credenze troppo a misura di uomo, fatte per soddisfare bisogni e desideri, per liquidare paure, nel contempo incrostate di vecchie e mediocri abitudini – come il trasformare l’ignoto in divino, e il basare i rapporti umani sulla sottomissione degli uni agli altri. Il mistero è altrove, la visione è incompleta.

Nel frattempo, possiamo stare fuori da tutto questo. Semplicemente, smettendo di crederci. > Puff! <

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È questa la moralità che il cristianesimo ci offre? Quella che chiamano perfetta e divina? Sarebbe questa l’unico vero standard di riferimento? È vera accoglienza, vera libertà, vera crescita? Uhm… Quando mi viene chiesto se ritengo la sua visione più morale di qualsiasi altra rispondo di no, ed ecco spiegato il perché. Quando mi chiedono se sia utile dico si può fare meglio. Al se sia necessaria rispondo men che meno.
Se sul divino un credente è libero di pensarla come vuole, sulla morale invece dovremmo essere molto più d’accordo: sì, perché se questa lunga analisi è corretta e quelli sono veri e grossi errori, allora non si può parlare di etica fondata su di essi, se non trasformandoli all’improvviso in qualcosa di buono. Un capovolgimento terribile.
Rischiamo infatti di abituarci ai loro frutti corrotti e meschini, di insegnarli e tramandarli anziché riconoscerli, estirparli, liberarcene. Meglio guardarla bene in faccia – questa, e in generale l’etica di qualunque religione, ideologia o filosofia di vita – per scoprire se, quanto e in che modo la libertà e la serenità personale siano da essa difese e promosse in tutto o in parte, se restano solo parole, o se – peggio ancora – ne siano invece limitate, anche quando si pretende il contrario.

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Va ricordato ancora (e non è mai abbastanza) che ci sono credenti che sono anche persone fantastiche. E che il cristianesimo, ovvio, ha i suoi lati buoni.
Questi, così come alcune esperienze del tipo che ciascuna religione a suo modo certamente offre, possono essere una vera e intensa opportunità di crescita e illuminazione, per colui/lei che cerca la sua via.
Ho anche conosciuto persone che dicevano qualcosa come «Dio è amore, è tutto qui»… In qualche modo, benevolo e romantico, molti mettono davvero da parte le innumerevoli altre credenze, i doveri, i punti brutti e i significati sottintesi presenti a tutti gli effetti nella loro religione, e spingono su questo semplice concetto tutto ripulito. Però, se fosse vero, basterebbe credere all’amore come Forza universale, una sorta di corrente cosmica che attraversa ogni essere vivente… non è provata lo stesso, ma niente di soprannaturale, no? Se davvero è ‘tutto qui’, si può spogliare la dottrina di tutto il resto? «Catechismo, pagina 1: Dio è amore. Fine del catechismo». Fino a che punto si può scartare questo e quello che non piace, e ritenere a buon titolo di far parte della chiesa che propugna la dottrina tutta intera? Di più: se è davvero necessaria questa sorta di purga, di pulizia interna per avere una bibbia e un credo light e fa(ul)t-free, con che certezza si può credere che sia ancora l’assoluta parola di dio, o che lo sia mai stata?
Davanti a questi contro-argomenti, in genere viene fuori che non era proprio ciò che intendevano – ad improvvisa difesa della dottrina che prima avevano fieramente abbreviato, e della loro stessa ostinazione ad abbracciarla tutta a parole. E allora si ha la sensazione che vogliano tenere il piede in due scarpe. Beh, quanto tutto questo abbia senso ed effettivo valore all’interno della loro religione, e quanto li soddisfi il doverne razionalizzare l’incoerenza di continuo è affare loro, è comunque bello che, almeno all’atto pratico, cerchino di prendere solo il meglio della propria fede e vivano per questo sereni, quando non persino attivamente buoni. Allora accade spesso che tra questi cristiani, gli atei ed altri credenti si crei vera armonia, nessuna invadenza, una convivenza pulita fra Persone con bei valori comuni… Insieme così, si sta da dio!
In fondo, affermo, è questa la cosa importante.

Insomma, c’è un tipo di cristianesimo in cui tutto il senso implicito di tragicità e sottomissione è molto meno accentuato, con fedeli che credono davvero nell’Uomo e condividono gran parte degli ideali qui espressi a proposito dell’Umanesimo. Bene!

Che poi una sana spiritualità, il senso del sacro e del santo, la percezione di segni, la scalata di livelli di consapevolezza, il senso di unione e di potente energia quando siamo insieme, l’apertura a realtà diverse ancora misteriose da cui farsi ispirare… Tutto ciò è positivo e… profondamente umano! È bello che sia e resti in noi, questo che è molto diverso dall’ideologia contorta di un culto fatto di dogmi, peccati e piramidi di potere. Meno religiosità, più spiritualità.

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Ad alcuni credenti piace proporre: «Vieni e vedi»… Sulla religione, l’invito a ‘provare’ per convincersi mette spesso sul viso del credente un’aria sicura e soddisfatta, perché conta sul fatto che il novizio sarebbe ben accolto e starà bene.
Ma è sufficiente? Quali sono gli altri fattori importanti, anzi determinanti? E, coinvolti per quella facile via, saremo in grado di giudicarli?
Quando storcevo il naso davanti a un piatto nuovo, mia mamma a tavola mi diceva: «Assaggia, prima!». E aveva ragione, perché solo assaggiando potevo confermare l’idea che era cattivo, o invece scoprire un gusto nuovo. In generale quindi è un buon consiglio, provare da dentro, perché in effetti i risultati possono essere molto diversi da quanto uno si aspettava. E tuttavia… non sempre è necessario, non sempre basta, e anzi a volte è vero il contrario: solo a una certa distanza si ha una visione obiettiva, lucida, precisa. E non è ovvio? Anche quello è provare, verificare, conoscere, un ambientarsi passo dopo passo. Mentre tuffarsi emotivamente in qualcosa che non si conosce è come fare bungee-jumping senza preoccuparsi dell’elastico: ti diverti un sacco fino all’ultimo secondo.
Sul tavolo della cucina c’è ora una stupenda torta guarnita e colorata, in una stupenda confezione col fiocco. La assaggi, è buona, ma ti viene mal di pancia. Perché? Perché la qualità di una torta non si misura semplicemente dal gusto e dall’aspetto. Infatti potrebbe essere stata fatta con cattivi ingredienti, additivi tossici, o senza igiene, o essere buona per via di troppo zucchero che alla lunga ci intossica e ci ingrassa… Ed ecco quindi che informarsi prima su come è stata fatta – da chi, quando, come, con cosa e perché – è già più che sufficiente per giudicarne l’effettiva qualità.
È anche possibile che per capire basti esaminare le varie esperienze che altri hanno vissuto, o coglierne gli aspetti già studiati e ben conosciuti – non attraverso la pubblicità, che non è informazione obiettiva e si fa per soldi, ma da fonti indipendenti e super partes. Questo vale ad esempio per il giocare col fuoco o i fili elettrici scoperti, per la droga e per il fumo: sappiamo già che fanno molto male, e provarli in prima persona sarebbe semplicemente dannoso, un’imprudenza e un’imperdonabile ingenuità che potrebbe costarci cara.
Allora, il ‘vieni e vedi’ delle religioni non è l’unico modo di conoscerle, e quando viene richiesto come se lo fosse si suscita un sorriso e un sospetto. In realtà, grazie a una valutazione preventiva, spassionata, imparziale si vedono già benissimo da fuori i lati oscuri e negativi di quel cristianesimo che invita a entrare, e ci gridano di starne alla larga, mica di avvicinarci… Di cogliervi qualche buon insegnamento e ispirazione, non di accettare in blocco le sue credenze.
Certo che si possono provare belle sensazioni quando ci si trova insieme a persone appassionate e impegnate, magari generose e buone, forse ‘guarite’ o ‘rinate’, raggianti e appagate dall’amore divino di cui si sentono oggetto… Ed è facile sentirsene ispirati, coinvolti e contenti. Peccato che questo non vuol dire che sia davvero vero ciò che credono, e persino che sia tutto buono ciò che offrono!
Questo, si può sapere ben prima di entrarvi: che ideali come amore, carità, tolleranza e pace – apertura cerimoniale del cristianesimo – vengono distorti attraverso la presunzione di rappresentare un dio, o sminuiti se diventano un dovere, o cristallizzati in regole strampalate, o contraddetti da un’altra parte della dottrina, o accompagnati da sentimenti opprimenti da quella suscitati… Naturalmente si può provare lo stesso, ed entrarvi con tutte le scarpe in quel modo avventato, ma se queste cose sono vere, allora saremmo esposti in prima persona anche alle esperienze tristi e deludenti che tanti stanno vivendo sulla loro pelle e nel loro cuore, frutti dello stesso albero. Perché dentro, non c’è solo il bello, quello che appare prima e per cui è facile entusiasmarsi, ma anche il brutto, e tocca accettare entrambi. Oppure, sì, rigettare entrambi.

Una bella esperienza in un gruppo non serve da sola a provare che il gruppo e i suoi princìpi siano perfetti. E non cancella eventuali storture che possono esservi. Ben vengano le nuove esperienze, quindi, ma sempre occhi aperti, mente lucida, e rispetto per sé stessi.
Teniamo presente poi che in tutti i gruppi si coltivano forti legami e si fanno esperienze magnifiche. E di gruppi ne esistono a bizzeffe, grandi e piccoli, tra cui quelli di molte varietà di cristianesimo, di altri culti, in ambito politico economico sportivo militare ludico sociale lavorativo scolastico… Più o meno impegnati esclusivi originali moderati, eccetera. Esistono anche gruppi di atei e umanisti, per quello! Perché non provare? Sì, certo: vuoi provare l’emozione di sentirti unito/a a persone di cui condividi la passione? Ritrovarsi e creare insieme, sentire sulla pelle l’amicizia, l’energia e il senso d’appartenenza che nascono stando fianco a fianco su un progetto di vita, accrescere speranza e soddisfazione (e spegnere la sensazione di inutilità o impotenza) sapendo di adoperarsi per il bene comune, per rendere le cose migliori? Entra in un gruppo, o fondane uno tu stesso/a! Se ti trovi a meraviglia in una comunità religiosa, fai lo stesso in una di atei, di umanisti, in un’associazione laica di volontariato o una collettività di cui apprezzi ideali e scopi, coinvolgi i tuoi migliori amici in qualcosa di grande per 1 anno… Vedrai che è lo stesso! Perché ciò che conta è stare insieme bene e magari cambiare – nel nostro piccolo – il mondo. Tante sono le opportunità di farlo, lo spirito umanitario è lo stesso e non c’è religione che tenga. Vieni, vedi, giudica.

«Ma uniamoci in preghiera, facciamo un pellegrinaggio, leggiamo la Bibbia insieme… e vedrai che Dio si farà trovare». Oh, perché mai dovrei essere interessato? Per tutto il tempo che ho avuto a che fare con il cristianesimo ho visto cose belle del tutto naturali, cose misteriose ma chissà se divine, e cose spiacevoli, anche molto spiacevoli. Ho pure scoperto che in questo tutte le religioni si somigliano. Facciamo noi un invito, allora: lo farò quando tu contemplerai le Upanishad, o ti immergerai nella preghiera in Sinagoga, approfondirai il Corano, viaggerai per l'India e il Tibet fra monaci e santoni, mediterai con sciamani pellerossa… Ciascuna di queste dottrine, dopotutto, invita a fare esperienza religiosa, cambiano solo gli dèi… io rinnego l’attitudine alla fede di tutte, ma tu invece la appoggi: chi può dire cosa troveresti?
Facile che la risposta sia negativa. Siamo disposti a giurare sulla nostra interpretazione, eppure a squalificare quella di altre fedi. Ma il fragile criterio è identico. La proposta iniziale è a senso unico, in realtà, ovvero non è per una ricerca spassionata e a tutto campo: la sfida non è a cercare la verità, ma a trovare il Dio cristiano. E a trovarlo prima che arrivi qualcun altro con la stessa sfida… e ci convinca.

Dal momento che non ne riconosco l'efficacia, puoi capire come il mio interesse per queste attività sia circa pari a zero. Piuttosto, confido nel fatto che, quando ne avrà voglia, dio sa dove trovarmi.
Quell’invito invece viene dal credente un po' come una provocazione, perché assegna a noi il dovere di cercare, come a dire che – a non dedicarsi a quelle cose con premura – eh, siamo noi allora che chiudiamo il cuore a dio, e non vogliamo che ci trovi. Ma è realmente così? Ci tocca davvero andare altrove, fare certe cose, leggere e rileggere, perché un dio si mostri? Lo trovo piuttosto bizzarro: se Dio fosse davvero accanto a noi in ogni momento, e onnipotente, non avrebbe alcuna difficoltà a farsi vedere e sentire con certezza e all’istante, sapendo del nostro sincero desiderio di incontrarlo! Dovrebbe essere sufficiente dire fra sé e sé «Eilà! Sono disponibile. Quando vuoi, eh!». Un invito da fare noi a lui, per la via più breve, senz'altri orpelli. Molti atei tranquillamente se lo concedono (per curiosità e apertura mentale) anche più volte nella vita, perché viene regolarmente disatteso?
Che presunzione, questi atei, eh? Non direi. È pura e semplice, schietta disponibilità. Non era questo che ci veniva chiesto? Ci vuole forse di più, in realtà?
Eccome! Pare appunto che Dio voglia prima essere pregato un bel po’, ed evocato con sentimento… atteso, sperato e implorato d’aiuto nei momenti più difficili e tristi… poi, si farà vivo. Al solito: per sentire Dio, devi prima già crederci, e accreditargli potere, averne un bisogno totale e corteggiarlo a lungo, in ginocchio. Come un sovrano d’altri tempi, da celebrare per un gesto di magnanimità, piuttosto che un vero amico, alla pari. Alla pari… che strano concetto è per alcuni! Inconcepibile, se si è abituati a credersi sudditi di un Signore, o figli di un Padre che ci chiede di non crescere. Dio la sua perfezione ce la fa pesare. Eppure, è squallido e perfido che sottomissione e adorazione debbano essere la premessa di un rapporto, la condizione necessaria ad un incontro. Potrebbero esserne spontanea conseguenza, ma anche lì, perché mai dovrebbe venirci spontaneo sottometterci e adorare? Chi, dev’essere il protagonista della nostra vita?
Allora: già non si tratta di una faccenda sicura, tipo ‘sali su quella collina, gira a destra, fai una giravolta, ed eccolo davanti a te’; non è nemmeno questione di apertura e disponibilità, che abbiamo premesso senza risultato… di che stiamo parlando? Di una verifica della nostra disposizione interiore a credere e a essere guidati, una precisa richiesta di abbandono alla fede e a un Re come sudditi e peccatori. Più sarà forte, più facilmente sentiremo qualcosa. Ecco, quel qualcosa è ovviamente ‘Dio’. Questo è il cuore della proposta. Di quel leggiadro invito un po’ spavaldo, resta soltanto questo.
Chissà se chi lo fa si rende conto di quanto sarebbe semplice per gli dèi farci la grazia di farsi trovare; che un cosa è essere allegramente propensi all’incontro e alla scoperta, tutt’altro è desiderare un abbandono ingenuo e acritico; che per pregare tanto qualcuno si deve già credere in lui, e che una volta carichi di devozione, il sentire dentro non è garanzia di alcunché; che l’atmosfera dei luoghi santi non è dio, e che leggere la bibbia come la Parola non dovrebbe significare rinunciare ad una sua valutazione obiettiva; che per quanto un’emozione sia intensa, Dio non si manifesta né si distinguono parole, e che scambiare l’una per l’altro è facile ma resta una licenza poetica in cui certe insidiose variabili umane hanno fin troppo peso; che farsi supplicare e adorare e apparire dopo che si è toccato il fondo non è bello per un nobile Signore… Che se la fede è un dono, non averla non può essere una colpa. E infine, che pregare per una grazia gratuita è puro controsenso. La domanda è dunque: a che scopo?
Ho chiesto di vedere Dio, e tutto quello che ho avuto è un credente sovreccitato e logorroico.

«Però immagina una mamma col neonato: lei ha pronto il biberon, ma lui deve piangere, mica può dargli il latte se non ha fame e non lo chiede!». Oltre che come re, del quale essere suddito, il credente si figura dio come padre, del quale ovviamente è figlio. Quest’altra metafora risulta ben più dolce e digeribile del secco – ma appropriato – farsi servi o pecore. Peccato sia meno precisa.
Il piccolo manifesta un disagio, non sta pregando la mamma in particolare. E non sempre c’è bisogno che pianga, né dovrebbe piangere a lungo, se è l’ora della pappa. La mamma non si fa supplicare in ginocchio, ma previene (e… pulisce) i bisogni di suo/a figlio/a. E non ci sono intermediari, che gli dicono che mamma è buona… perché la mamma è lì, esiste, lo ascolta, lo abbraccia, gli parla, e il calore del suo amore brucia da vicino. Un (buon) genitore non si sente superiore al figlio, malgrado tutte le cose che per ora non sa fare. Un (buon) genitore non chiede al bambino alcun tributo particolare per avergli dato la vita, né pretende che egli la orienti su di lui, ma anzi lo incoraggia e lo prepara a volare via dal nido. Se tornerà volentieri, non sarà perché è in obbligo e glielo si fa pesare, ma perché ricambia l’amore e il rispetto di un rapporto sano.
Il figlio cresce, diventa grande e indipendente, e ciò non può che inorgoglire quella mamma con il biberon.

Per arrivare a Dio bisogna partire da Dio. Il divino si manifesta… quando di questo si è persuasi. Se invece non ci si convince così facilmente – perché appunto non ha senso credere in qualcosa di cui non v’è certezza, o che si sta ancora cercando – e men che meno si rinuncia al rispetto di sé strisciando per un po’ d’attenzione, allora sprizzano fuori tutta una serie di ragioni per le quali non si è manifestato. Mica perché dio non esiste: eh, non eri pronto/a tu, o forse credevi di esserlo, o non ti lasci andare, o sei troppo chiuso, troppo critico, troppo pieno di te, o ce l’hai intorno ma non vuoi capire, e comunque non sarà stato il momento giusto, ma Dio ha un piano… In altre parole, il ‘vieni e vedi’ non serve a maggior ragione perché si può ricorrere a convenienti scappatoie, al posto della semplice certezza dell’incontro cercato. Se vieni e non vedi un accidente (o hai ragioni per dubitare ancora), Dio esiste lo stesso (e la colpa è tua).

Con fede, un dio si manifesta anche nel succo di mela, e a capo di un fenomeno ce ne stanno mille. O nessuno.
Nessuno… Come nessuno? Ma allora tu fai lo stesso errore, parti dal pregiudizio che dio NON esista! Naaaa. Un ateo razionalista guarda la realtà, e va dove lo portano le prove e il ragionamento dopo le emozioni e le esperienze, e lo fa perché con tutti i suoi limiti è un metodo più sicuro della semplice fede. Quando e se questo lo condurrà davanti a un dio, quale che sia, lo segnerà presente. Fino ad allora, inutile chiedergli di dare quel dio per reale, per vicino, per ovvio, perché per fede vale tutto e niente.
Sentito questo, qualche credente insisterà che gli atei hanno proprio una mente chiusa e un cuore duro perché rifiutano di accettare l'idea che il loro dio possa esistere e manifestarsi qui e là a suo piacere. E sbagliano: l’idea è accettatissima, ciò che essi non fanno è saltare alle conclusioni per fede. Semmai è il contrario, quindi: è il/la credente che chiude la mente e giustifica ogni cosa con gli dèi, preferendo un’unica, preconfezionata, precipitosa spiegazione, invece di restare aperto/a alle ragioni della nostra splendida e semisconosciuta natura, quali che siano. E così, a volte, gli si indurisce pure il cuore.
Siamo del tutto d’accordo: per comprendere il vero e conquistare l’ignoto è essenziale restare aperti a nuove scoperte e a punti di vista originali. Ma qui purtroppo finisce la nostra intesa. Non solo infatti va prevista una selezione di quelli che si dimostrano più affidabili – o ci allontaneremmo dallo scopo – e la fede non lo è per natura, ma appunto perché è essenziale restare aperti, essi non possono mai essere considerati dogmi né dati per scontato, pena contraddirsi. Né fede né dogmi, per comprendere il vero. Facciamocene una ragione, o continuiamo a sognare.

Chiaro dunque perché è un argomento inefficace e una ‘sfida’ inutile. Lo è quando il ‘dargli la possibilità di incontrarti’ è inteso nel senso di: accetta che in quello che vedrai e sentirai ci sia Dio. Per credere allora c’è bisogno di fede. C'è bisogno di voler credere. Una vera polverina magica. E come per incanto, gli dèi sembrano apparire. Ma se si è convinti prima, o si conclude in fretta, che quello che si vive ha del divino, non è ovvio che si vedrà così ogni cosa, sia essa realmente divina o del tutto naturale? In fondo, non si dà troppo spazio al desiderio, alle interpretazioni, alla speranza, alle convinzioni personali? Quanto c’è di Dio in questi incontri per direttissima, e quanto invece ci mettiamo del nostro?
Perché non ammettere che certi stati d’animo predispongono in ogni caso a emozioni particolari? Ci sono invero taluni che affermano di parlare con Dio in questo modo tutti i giorni: incomprensibilmente privilegiati o sinceramente illusi? In che modo è possibile distinguere la differenza? È onestamente possibile identificare Dio oltre ogni dubbio, oltre ogni vocazione o atmosfera del momento, in quella agitazione dentro di noi? Essa è vera, reale, forte, persino capace di cambiare una vita, è fuori discussione: ciò di cui non possiamo essere certi in alcun modo è la sua essenza soprannaturale, laddove invece sappiamo – per documentata esperienza umana – che già solo ciò che crediamo vero condiziona le nostre sensazioni, con effetti e conseguenze perfettamente uguali.
Se a un tratto provassi qualcosa, diciamo ‘una presenza’, o ‘amore’, potrei essere certo che abbia origine divina? Se sì, perché ogni religione e setta crede con la stessa formidabile certezza interiore, per via dei soliti argomenti e dopo le medesime sensazioni, a dèi diversi? Soltanto la loro interpretazione cambia. Perché questa cosiddetta verità assoluta e universale nasce, cresce e muore in ciò che è tanto soggettivo?
E perché mai gli dèi si fanno tanto pregare? E poi perché trovarsi dentro un dio dovrebbe automaticamente suscitare devozione? Perché mai occorrerebbe proprio battersi il petto e denunciarsi come trucidi e impotenti peccatori, quando così non siamo, e accettare d’essere servi di un re, anziché liberi e responsabili, e bisognosi di un salvatore, piuttosto che pronti a migliorarci, perpetuamente umili, invece che fieri di noi stessi, curvandoci in preghiera e adorazione e sacrificio, come fosse questo l’amore?
Se poi l’interpretazione è corretta, perché non vi corrisponde l’esattezza dei libri sacri, né la moralità nei comportamenti di chierici e ferventi fedeli che si credono ispirati?
Considerato tutto questo nel suo traboccante insieme, che peso dare, che senso dare, a questa cosa del “hei, ho appena fatto esperienza di Dio”? È davvero disonorevole e immaturo, tanto sciocco ipercritico e arrogante scegliere di andarci con i piedi di piombo, date circostanze che sembrano fatte apposta per indurre in tentazione?
È facile sentir dire che non sarebbe poi tanto strano, si tratterebbe in fondo di un modo alternativo – ma altrettanto efficace, e saggio ancor di più – di giungere alla verità. Davvero? Ma l’elaborazione delle emozioni è cosa piuttosto delicata, mentre la testimonianza personale e il racconto aneddotico possono essere così ambivalenti e contaminati da non possedere affatto quell’aura di affidabilità di cui si ama rivestirli senza troppi complimenti, tanto che nelle decisioni importanti – ad esempio in un procedimento legale o in piena ricerca scientifica – essi non sono considerati più che spunti di partenza, a supporto di prove da cercarsi altrove. Perché invece, quando c’è di mezzo il nostro dio, ce li facciamo bastare? La risposta potrebbe sorprenderci.
Si pensa al proprio dio e si prova un senso di pace, calore, entusiasmo, finalità… Ed è bello, ma anche umano. Accade di regola in qualsiasi contesto positivo, rivelando che in noi il credo è forte, forte abbastanza. Nulla invece su dio, che è reale soltanto perché così si vuole, si desidera, si interpreta, si crede, prima di qualsiasi analisi razionale. Veramente dunque è un modo efficace? Veramente dunque è saggio?
Se mancano di base un metodo critico e un approccio scettico – inteso naturalmente non come fatale e cinica incredulità, ma come disposizione a dar credito solo dopo sostanziali conferme – la lacuna è grave e ne possono derivare conclusioni le più stravaganti. Come dar corda a proposte del genere? Tu lo faresti?

Non intendo deprezzare né disprezzare per principio ogni tipo di esperienza spirituale, anzi sono certo che alcune possano davvero aver sfiorato le corde del mistero, ma la maggior parte dei segni, delle coincidenze, delle impressioni, delle chiacchierate e dei tête-à-tête col soprannaturale sono tutt’altro che reali incontri ravvicinati, più spesso certezze auto-appaganti, abitudinarie illusioni, e a volte una naturale tensione spirituale che sconfina in altri mondi. Ritengo che ci voglia tanta cautela nel giudicare quanto più è forte il desiderio di credere. La presenza di elementi di contorno così ambigui in tutte le religioni giustifica un sano scetticismo su di esse, e deve necessariamente disporci a un sereno esame, al fine di non rendere precipitose conclusioni già difficili da ottenere.
Siamo d’accordo? Abbiamo visto abbastanza inconvenienti in questo sistema di abbandono a/interpretazione di sensazioni, tanto che lo stesso credente ne diffida se a usarlo è un credente-in-altro, del quale non esita a respingere le farraginose e precarie tesi. Giusto! Perché poi non sia coerente fino a scartare anche le proprie, e si allei con tutti gli altri quando si tratta di difendere genericamente il metodo, è materia di psicologia.
Avvertendo la presenza del proprio dio, un credente può certamente ritenere di conoscerlo. Ma se non può anche mostrarlo ad altri con la stessa chiarezza, poco rimane se non aspettare che si faccia vivo lui. Se l’esperienza e le prove di Dio restano interiori e personali, non ci si può aspettare che siano credute, né che secondo tutti gli altri siano immuni al dubbio e alla discussione. Sono di certo credenze legittime, come tutte, e possono essere raccontate e insegnate a chi lo desidera, perché no. Ma che siano anche vere è tutt’altro conto, e allora almeno non ci si meravigli del fatto che non siano capite, credute e altrettanto apprezzate da chi non ne ha ricevuto ‘rivelazione’, ma memoria indiretta, mediata, inverificabile.

A questo punto, 5 possibili finali fra i più comuni. Un modo raffinato per sminuire le tesi e tendere una trappola mentale: il buio della fede («Tutti passiamo un momento di dubbio… Ne uscirai, Dio con te non si arrende!»); quello paranoico: Satana («Ciò che pensi è opera del Maligno. Rifiutalo, o andrà sempre peggio!); il suddito fedele, viziato e irascibile: la colpa («Ah! Continui a scervellarti, a criticare, a fare muro! Così offendi il Signore! Che malizia! Colossesi 2,8! Salmi 13,1!»); il credente equilibrato e sicuro: accettazione («Beh, porti argomenti interessanti, e da te non mi aspettavo di meno. Condivido anche alcuni tuoi princìpi etici. È il mio punto di vista, ma penso che a Dio piaccia. Se son rose, fioriranno»); quando le tesi fanno breccia: il dubbio («Accidenti, il tuo discorso fila. Se Dio non esistesse, potrei lo stesso… Oh, accidenti!»).

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Per come siamo fatti, indubbiamente ciò in cui l’Uomo crede gli dà la carica, e che carica! Ma… è anche reale? Universale? Giusto? Piacevole, positivo per noi? Il benessere che ne esce è duraturo e profondo?
È vero toccasana, o surrogato d’amore, ripiego di amicizia, giustizia sintetica, facile sollievo? C’è vero rispetto sempre, o anche strani vincoli e freddezza?
Dobbiamo accettarlo passivamente o possiamo continuare a cercare?
Ci distoglie forse da qualcosa di più importante, da una visione più reale, da soluzioni più efficaci? Cosa dobbiamo dare in cambio?
Se anche una esperienza dà belle emozioni, ciò vuol dire che i riti collegati hanno senso? Che il creduto è anche reale?
E ancora: serve che sia divino o soprannaturale per dare eccellenti risultati?
Se non ci sono prove definitive, va già creduto totalmente vero?
Si può avere gli stessi sani princìpi senza dover accettare una ‘spiegazione’ metafisica? Si può vivere gli stessi sani princìpi senza dover restare attaccati a vecchie abitudini e freddi riti?
Si può avere dei sani dubbi senza rischiare pesanti giudizi qui, e inferni in un aldilà? Chi propone è degno di fiducia?

Di qualsiasi credenza, sistema di vita o relazione che ci interessi, sarà utile scoprirlo.

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Ogni religione offre di belle esperienze, tutte intente come sono a interpretarle come segni di presenza e partecipazione dei loro dèi… Nessuna che offra invece delle prove che dietro quella gioia, quell’ispirazione e quella coincidenza positiva ci sia davvero un dio, e non invece una idea brillante e una particolare premura capaci di ispirare sensazioni del tutto speciali. Dal completo silenzio e dalla mancanza di risposte chiare, ciascuno ricava un ‘assenso’ del suo dio, e se ne sente rassicurato e incoraggiato. Ma il silenzio è silenzio, e in questo caso non vale credere che sia una risposta positiva, come non lo sarebbe il silenzio del Mago Simpatico.
Credere di aver un dio dalla propria può dare decisione, speranza, vitalità e carisma, può cambiare la vita. Ma questo pur mirabile risultato non dice proprio niente sulla realtà del creduto, né sulla bontà di aspetti dottrinali fondamentali: le varie confessioni cristiane e le tante altre religioni, tutte pensano di interpretare il volere di un dio e che questo le approvi e le ispiri… tuttavia non è possibile che abbiano tutte ragione, né gli dèi si sono mai espressi a favore di una o di altre con segni concreti per tutti, ed è per questo che ciascuno può permettersi di immaginare che un dio è con lui. Viceversa quelle stesse sensazioni, quella vitalità, quell’entusiasmo, quel senso di unione e di comunione, la speranza, il radicale cambiamento di vita, possono ben scaturire – e lo fanno – da esperienze, ideali e progetti al di fuori dell’ambito religioso, senza alcun bisogno di dèi e sacerdoti. Queste due realtà di fatto dimostrano che la forza con cui si crede – e non ciò che si crede – ci fa attingere ad energie e capacità eccezionali che già abitano in noi, le risveglia e ce le rende disponibili. Capacità ed energie nostre proprie, naturali e umane, non aspettano altro che una buona ragione per essere usate.
Per quanto nuova e sorprendente possa sembrarti questa idea, stare bene insieme e venirsi incontro, darsi uno scopo comune e sentirsi orgogliosamente parte di un qualcosa di più grande senza lasciare questo mondo è possibilissimo!
Certo senza un dio – si sa – manca il conforto di un amore sicuro e perfetto, il sollievo di paradisolandia e la rivincita di una giustizia finale… Ma inventarli non salva davvero, ci illude. Aspettare un aldilà è un depistaggio che ci rallenta, speranza per la speranza. Cominciamo fra noi, facciamo funzionare qui le cose, non accontentiamoci. Perché se è triste abituarsi all’idea che non c’è un’altra vita, è bello sapere che possiamo migliorare infinitamente quella che abbiamo.

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Una domanda curiosa che a questo punto ti capiterà di sentire è: «Perché tutta questa rabbia contro Dio?»… Si può rispondere: «Come è possibile essere arrabbiati con un tizio che non credo esista?». Se esistesse, il dio biblico, certo sarebbe bersaglio diretto di grande disapprovazione, ma non per rabbia cieca o ribellione ingrata, quanto per i numerosi perché – per ciò che impersona, progetta e insegna – che mi paiono ben descritti in questo e altri libri. Fino al giorno in cui sapremo che esiste – se mai verrà – quella disapprovazione sarà invece diretta ai reali responsabili: tanto all’ossatura dottrinale quanto ai protettori di qualsiasi ideologia che tenda a paralizzare l’essere umano, inchiodando la sua vitalità con la scusa assurda che è inetto, e regalandogli illusioni prima che possa scegliere da sé.
Anche questo è un pregiudizio lanciato senza pensare, senza verificare (c’è da perderne il conto, diamine). Fa parte dello sciocco stereotipo dell’ateo in difficoltà. Dopotutto, se non crede, mica sarà per un problema interno alla religione, no?

Ho detto ‘diamine’? Allora devo essere proprio arrabbiato… Dall’alto della falsa convinzione che dio sia del tutto evidente a tutti, e che solo loro lo hanno capito, a certi credenti piace proprio detronizzare atei e agnostici da ogni sana capacità di giudizio. Credono di conoscerti, sei come un adolescente che sbotta. E sappiamo come sono gli adolescenti… È un problema tuo. Tuo padre ti ama, ma tu lo rifiuti.Ti aiuta, e lo odi. Non è che ci sono motivi, non è che magari è colpa sua, o almeno di tutti e due, no. Non è che abbiano 1 o 1000 argomenti contro, che siano nauseati da idee che non approvano e preoccupati e risentiti da comportamenti che ritengono gravi… Tutto falso, tutto fumo. Cos'è questa rabbia, questo odio, ci dicono, cadendo dal pero stupefatti. In fondo va tutto bene, che problema avete voi atei? Sarete mica satanisti? Comunque Satana vi sta usando. Lo stolto, dice dio non esiste. Ora smettete di offendere (!) e tornate alla vostra vita triste e vuota… Eh sì, tutto, pur di non accettare l'idea che dio non sia perfetto.
Insomma, i non credenti se ne dovrebbero stare in un angolo, buoni e silenziosi, non rispondere né giammai impicciarsi. Anche quando saltano fuori cose per essi assurde, sgradevoli, fastidiose, offensive, pedanti, biasimevoli, superficiali o pericolose, sul loro conto o a carico della società, da parte di una fede. Se allora si indignassero per questo, e – Dio non voglia – esprimessero le ragioni del loro sentimento, basterà tirare fuori di tasca quello stereotipo e op!, eccoli di nuovo in riga. In realtà, considerare gli atei come dei capricciosi paranoici in vena di inutili polemiche è un modo comodo per tornare a illudersi di avere ragione senza aver affrontato il problema, e anzi aggravandolo, poiché anche questo atteggiamento ne è parte, e si ripete. Essi invece in questi casi hanno il diritto di essere risentiti, di esprimerlo con adeguata fermezza, e in generale di parlare quanto vogliono, malgrado il fatto che ciò che pensano possa essere considerato offensivo e provocatorio: è probabile che lo sia quanto per loro certi discorsi di fede, ma questo non basta a distribuire torti e ragioni.
Non sarà giocando a fare i puri e gli intoccabili che il problema scomparirà, ma prendendo in carico la situazione e confrontandosi a suon di argomenti, e sia quel che sia.

«Tutta presunzione! Perché l’ateo crede di farcela senza un dio, perché si fa più grande di suo Padre»… Ma dai? Dall’interno di una visione di fede dev’essere una bella presunzione sì, visto che ci si fa più alti… dell’Altissimo!
Eppure, da fuori, semplicemente questo ‘super-padre’ non esiste e per quanto ci eleviamo non saremo mai più alti di una perfezione che non c’è. La presunzione dell’ateo è pari a quella di dirsi superiore a Odino, a Quetzalcoatl, o alla Fenice… cioè nessuna.
Sono qui a dire che abbiamo i nostri limiti, che abbiamo molto ancora da capire e scoprire… Poi però voglio anche che sia riconosciuto il valore di ciascuna persona, valore che semplicemente non è determinato da un dio.
Ah, che poi che problema c’è a diventare migliori del proprio padre?

Altra frase che sentirai spesso: «Ma il cristianesimo è alle nostre radici!». …Certo e allora? Forse che dobbiamo ancora innaffiarle se scopriamo che sono marce? Anche la schiavitù, la guerra e la monarchia assoluta sono nostre radici, forse che dobbiamo coltivare anch’esse? In altri Paesi poi, è tradizione un’altra religione, ed essi pure innaffiano… Insomma, il luogo o la storia cos’hanno a che fare con la verità o la bontà di un’idea?
L’italiano viene dal toscano del XIII secolo, ma nel frattempo si è evoluto, sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante. Chi vuole tornare a parlare come Dante, si accomodi!
Care, vecchie abitudini…
Le radici della nostra cultura sono anche altre, come la civiltà greco-romana e l’illuminismo. La nostra storia è fatta anche di un mai battuto impegno laico per la scienza, la libertà e il diritto, spesso avversati proprio dalla radice-Chiesa. E adesso come la mettiamo?
La mettiamo così: oggi viene da ieri, ma non è più ieri, come un figlio non è uguale ai genitori. Ed è giusto che non lo sia, se così vuole, perché è libero e ciò che vorrà mantenere deve poterlo scegliere. Dei bravi genitori gli avranno insegnato ottime cose, in fondo, no? E avranno fiducia in lui.
Come una cosa va richiesta non ‘perché lo dico io’ ma dando un buon motivo, così un’altra non può essere difesa perché ‘tradizione’ ma perché è tutt’ora buona, utile, adatta ai tempi. Se non resta che rifarsi alla tradizione, è perché non si hanno ragioni migliori. Si dovrebbe invece saperne offrire di belle, per scegliere la fede, anziché brontolare sull’avanzata del secolarismo… Ma sarebbero le solite, con nulla a che vedere con la verità, di poca efficacia ma rigido impegno, distanti dal moderno e prive ormai di monopolio, ed è proprio per questo che sempre più persone queste radici cristiane non se le filano. Allora oggigiorno si cerca di smerciarla non più come religione, ma come ‘cultura’, ‘storia nazionale’, ‘valori’ e ‘diritti umani’, perché fanno più presa di un dio – giustamente – ed è su questi che si gioca il nostro futuro. Ciò però disturba chi ancora pensa – a ragione – che il cristianesimo religione sia, con un messaggio che va accettato in quanto tale. Per un vero cristiano, veder svenduta la propria fede come convenzione sociale, da adottare in quanto italiani e europei anziché per amore e timore di Dio, dev’essere un vero smacco. Per molti altri però, Vaticano in testa, ciò che conta sembra essere l’apparenza della fede. Meglio cristi sui muri e nelle costituzioni che nel cuore dei fedeli, quindi. Grave? Certo, ma se la sbrighino fra loro. Ciò che interessa tutti è che ancora una volta un gruppo vuole imporre le sue credenze religiose a chi non fa parte o non fa più parte di loro, o non è ancora in grado di scegliere, usando i valori e le virtù umane come semplice piede di porco.

Argomentare a favore dell’etica, della vita, del bene comune, delle radici storiche non è argomentare a favore di… Dio! Cristianesimo perché cultura e storia d’Europa? Ma la cultura si evolve, e la storia la facciamo noi ogni giorno. Voler ristagnare nel passato non è un dovere civico, ma una scelta, la cui convenienza non può stare nella voglia di non far dimenticare agli altri la propria religione.
Cristianesimo perché parla di valori universali? È un modo improprio di presentarlo – sia perché quelli che oggi riteniamo tali li ha invece avversati per secoli con azioni scandalose e abominevoli (a proposito di storia! Vedi capitolo 12), sia perché vi aggiunge tutta una teologia che ad essi non appartiene, e da cui non dipendono in alcun modo. E quando sono persone non ignoranti a farlo, diventa una vera scorrettezza. Che ci si abbassi a tanto è indicativo: non solo di doppio gioco, ma penso anche di paura. Paura che nasce dalla (giusta) previsione che – se offerto per tutto quello che davvero è e per cosa comporta – non sarebbe più placidamente accettato da un sacco di gente.
Il cristianesimo è una parte della cultura, ed è innanzitutto una religione. Come tale parla anche ma non solo di valori, e a suo discutibile modo. Ci vuole tanto a capire che quindi non rappresenta né appartiene a tutti? E che un Dio è simbolo di valori solo per chi ci crede? Eccheddiamine!
Volete sostenere valori e diritti, siamo d’accordo! Sosteniamo valori e diritti, non altro. Sennò – come disse il conte – cachiamo fuori dalla tazza…
Eddài su, nun ce provate.

«Credere, se Dio esiste ti conviene, se no non avrai perso niente!». Ah, Pascal, Pascal… Il filosofo fu il primo a proporre questo famoso argomento a favore della fede (cristiana), eppure anche a tanti credenti non piace: svilire la rivelazione e praticare per convenienza, che squallore!
Comunque, non è vero che conviene: perderei la mia razionalità e dovrei rinunciare alla capacità critica, preferendovi una pratica – la fede – che mi espone al falso e all’inganno. Condizionato dagli altrui dettami circa la mia vita, a pena dell’inferno, perderei serenità e libertà emotiva. Avrei sempre una scusa, quindi non mi darei la responsabilità delle mie azioni. Se cominciassi a scegliere in base a comandamenti e autorità, mi mancherebbe senso morale. A battezzare e mandare bambini troppo piccoli al catechismo, avrei perso il rispetto per loro, che invece meritano. Comincerei a regolarmi su dio per l’aldilà, rischiando di smettere di cercare ciò che realmente fa il nostro benessere di qua. Dovrei accettare che la fede è più necessaria delle buone opere, se senza di essa non c’è paradiso. E probabilmente giudicherei gli altri di conseguenza, creandomi pregiudizi e barriere mentali inutili e deleterie. Poi mi sentirei in colpa per aver giudicato, forse, ma tornerei a rifarlo, perché in fondo non si può evitare ed è anche giusto, solo che certe direttive hanno un senso obbligato e allora ne sarei turbato, perché – oserei dirlo? – non fanno parte di me, ma di Dio e della Chiesa. Perderei tempo in cose a mio parere chiaramente inutili – quali messe, preghiere, confessioni, adorazioni, meditazioni, ringraziamenti e riti sociali la cui sola funzione è ostentare devozione e obbedienza a un dio narciso. Preferisco invece dedicarmi full-time a me stesso e ai miei cari, e partecipare, condividere, ascoltare, crescere e rendermi socialmente utile secondo i miei ideali. E poi dovrei vedere amore e giustizia in una dottrina che, come mi pare di aver dimostrato, ne dà una versione stravolta, quindi perderei i miei princìpi più grandi. In conseguenza di tutto questo, perderei la stima di me stesso. Decisamente troppo, non trovi?
No, non è vero che conviene, e non è vero che non si rischia niente a credere.

«Ma… la religione dà speranza!» Hai ragione. E c'è bisogno di speranza, vero? Soprattutto oggi, che le cose non vanno molto bene, al mondo. Povertà e guerre non cessano, aumentano problemi politici e sociali, si allargano superficialità ed egoismo come, all'opposto, fanatismo e fondamentalismo, ci facciamo improvvisa violenza l'un l'altro… Sembra che tanta gente non abbia più valori e non percepisca più la differenza fra bene e male; si senta persa e incerta, perciò si fa aggressiva. La speranza che tutto cambi di botto, grazie a un amico immaginario, è allettante. La ‘certezza’ offerta dalle fedi tranquillizza, consente di recuperare una certa normalità, un senso di stabilità, di sicurezza, dunque di speranza.
Ma è questa una buona ragione per credere?
Sono certo che molti fra gli stessi credenti direbbero di no: non è questo il senso ultimo della fede. Eppure tanti altri vi si attorcigliano proprio per questo motivo, a partire dal papa che, con l'enciclica ‘Spe salvi’, prova a giustificarla e anzi a fondarvi la sua fede. Ma prova a leggerla: non hai anche tu l'impressione di un uomo disperato, terrorizzato dal mondo e impotente? Un uomo che, nel ripetersi e ripetersi, cerca di convincere sé stesso? Così la speranza nell'invisibile, nel soprannaturale, in una vita dopo la morte, diventa rinuncia – e condanna – al visibile, al naturale, alla vita prima di morire, svuotata di senso. La fede diventa cantuccio in cui nascondersi e aspettare accettando la sofferenza come inevitabile, fragile e disperato rifugio da problemi che non si sa come risolvere senza Dio, e perciò paiono demoni inarrestabili. La speranza religiosa nega l'evidenza delle potenzialità umane – in Dio originate e a lui ordinate, ritenute al massimo capaci di lenire ma non di curare, essendo l’uomo imperfetto e colpevole – e spinge al rifiuto e all’incomprensione della vita reale, l’unica certamente vera senza bisogno di sperare che lo sia, nutrendo l’illusione che sia altrove, anzi al di là. Così si sopravvive, ma si diventa parte del problema. La fede non spinge a una soluzione definitiva, che non si vede alla nostra portata, ma arranca in attesa della magia magica di un mago. È speranza di uomini senza speranza.

Salvezza, giustizia e gioia eterna… dopo la morte. Signori, dopo la morte! Che importanza può avere?

Se è speranza che si cerca, e si è disposti a credere a tutto ciò che la dà, perché non credere alla metempsicosi buddhista? O al paradiso ebraico, o alle ‘Grandi Praterie’ dei nativi americani? Quella di una religione è una falsa speranza.
Vera speranza viene da un'idea del mondo che non richiede alcuna fede.
L’Umanesimo ateo ne è fonte pregiata, dato che considera gli uomini del tutto capaci di realizzare un mondo migliore, di risolvere i peggiori guai, di non ripetere i vecchi errori, di stare bene insieme, di conquistare benessere, pace, giustizia. Con i loro mezzi (da perfezionare), il loro sudore (tanto ancora), ma su questa Terra. Tutto ciò infatti non è al di là delle nostre possibilità, né delle nostre abilità, è un dato di fatto visibile in mille piccole e grandi esperienze quotidiane e nella storia. Al prezzo del nostro impegno a realizzarlo, un pezzo alla volta, ogni giorno. Indubbiamente più faticoso, ma estremamente più funzionale, efficace, incisivo. Concreto, positivo, equilibrato. E rapido, perché non bisogna attendere la morte, né vivere sulla brace del sospetto che giustizia e benessere da oltretomba siano solo l’inganno di un credo. Senza dover supplicare alcun divo celeste che lo faccia per noi, un giorno x prossimo venturo, a sua scelta, forse.
L’uomo non vive di solo pane… ma nemmeno soltanto di parole di speranza. Non possiamo, e non dobbiamo, soltanto ‘sperare’, nell’illusione fatale di non poter fare nulla. Nell’Umanesimo ateo la speranza di una vita migliore si sposa con la progettazione di strategie realistiche ed efficaci, per avere certezza di risultati, di cambiamenti positivi ora, qui e fra noi, per noi e grazie a noi.
Vuoi speranza? Conta su questo!
Vivere valori umanisti, condividerli, essere attivi nella società per guarirne le carenze e gli inganni, aiutare sé stessi e gli altri a vivere sereni, liberi e responsabili, significa dare vita a quel cambiamento positivo che oggi semplicemente vorremmo, e che domani grazie al nostro impegno sarà un fatto.
Ci sono problemi, vogliamo soluzioni. Non dobbiamo per forza aspettare, possiamo agire ora. Essere la speranza. Fare il paradiso. Vivere, bene, oggi, insieme.
Per dopo, si vedrà.

«Gli atei credono che alla morte tutto finisca. Niente resta, niente conta davvero! Non è miserabile?». No, è solo triste, molto triste. Perché dovrebbe essere miserabile la vita e ciò che di bello realizziamo in essa? Dì, Shakespeare e Michelangelo sono morti, ma le loro opere forse non risplendono ancora? Dovremmo forse rinunciare a inventare e creare, perché ops, non saremo per sempre qui? Smettere di studiare le più gravi malattie, per giungere a guarire chi resterà dopo di noi? Non amare e convivere e partorire, perché tanto non sarà per sempre? Non godere, volere, volare? Non gustare un limoncello sotto una fronda, non sporcarsi le mani col grasso di una moto, non viaggiare per altre terre, non tendere la mano a un bambino? Vivere come se fossimo già morti? Miserabile sarebbe non godere della vita finché c'è. Disperati dimenticare la sua squassante bellezza, l'emozione di stringere amori e amicizie, la gioia di creare meraviglie e l'importanza di lasciarle in eredità. Scialacquare il presente, vivendo impauriti dalla fine e dalla morte di un giorno nel futuro.
Triste, che tutto finisca. Ancora più triste è credere che niente di ciò che vive e muore abbia senso, e darsi l'illusione dell'eternità per scorgere nella propria esistenza appena un po’ di quel colore che comunque le appartiene. Nichilismo religioso. È vero, prima o poi tutto finirà: il senso di tutto è fra quel prima e quel poi. Sì, moriremo, ma quando? La morte è certa quanto il fatto che fino a quell’istante siamo vivi.

«Come ateo non sai nulla della mia fede, ma pretendi di dar lezione, e così trai in errore chi ti ascolta per i tuoi viscidi scopi: ignorante, arrogante, manipolatore di coscienze!». Beh, anche queste sono accuse che capita di sentire sulla bocca di alcuni cristiani. A parte l’ironia dell’offesa (oh quanto amorevoli e disposti al perdono!), è spesso solo un altro pregiudizio usato per non scendere nel merito della critica. Chiaro che a volte può essere del tutto vero, nel qual caso occorrerebbe provarlo, oltre che gridare: se invece di controbattere con ottimi argomenti, e notare comunque l’eventuale lealtà della persona, si reagisce con un getto di permalosa ostilità, qualsiasi cosa si dica verrà intesa in quel cattivo senso anche se vera, paradossalmente diventando… ciò che si accusa l’altro di essere.
In realtà è più facile che l’ateo/a sia piuttosto preparato, non intenda dare lezioni dal pulpito, può sbagliarsi ma è in buona fede. Ci tiene a dire la sua, ma si lascia confutare da ragionamenti migliori e lascia liberi di decidere, a maggior ragione se si ispira a princìpi umanisti. In questo caso, come farne un ‘mostro manipolatore di coscienze’? Detta così, per riflesso condizionato, è un’accusa campata in aria, tanto più grave quanto più ferisse la dignità e la reputazione della persona. Ironicamente: è proprio la fede, quando astraendosi non tiene debito conto dei fatti e delle ipotesi naturali, che si fa ignorante. È proprio la fede, quando pretende di non essere oggetto di ricerca e nega l’espressione della critica, che si fa arrogante. Ed è la fede, quando si sostiene con dimostrazioni fallate e pregiudizi, con illusioni premature e doveri nascosti, che delude, disorienta e manipola le coscienze.
L’obiezione arriva anche al gusto di pistacchio: gli atei mancherebbero di profondità, di spiritualità, e dunque non hanno titolo di criticare ciò che non comprendono. Anche in questo caso, fare dell’erba un fascio è troppo comodo e superficiale. Nuovamente ironico, no? Ebbene, come tanti credenti, anche tanti atei sicuramente lo sono. Ma perché generalizzare? Perché negare che la profondità intellettuale e morale, la ricchezza interiore, l’introspezione, l’intensa sensibilità, l’intima ispirazione, la meraviglia, il senso del sacro e persino l’attenzione alle cose dello spirito, appartengono a tutti gli uomini, come uno dei segni che ci distinguono e ci rendono superiori agli altri animali? Farne prerogativa dei credenti non solo è arbitrario, ma un vero e proprio furto a tutti gli altri, come fossero persone incomplete, mancanti. La verità è che ognuno di noi, credente o no, può trovare in sé questa profondità, e coltivarla nel senso che più gli piace.
Gli atei che lo fanno, tanto più se umanisti, vanno semplicemente in direzioni diverse.
E mentre da credenti ci si impegna a uscire dalla realtà, facendo dell’anima una cosa a sé pronta a volare chissà dove, da atei umanisti si gode della realtà, abbagliati dalle sue stupefacenti sfumature, rapiti dalla sua bellezza, ispirati dall’incredibile esperienza umana, appagati dagli istanti che ci riempiono totalmente, profondi e altissimi, tragici e meravigliosi, spirituali e sacri nel senso più puro e naturale. Se qualcuno desidera aggiungerci una riflessione mistica sulla propria fede e sul proprio dio, e questo gli giova altrettanto, perché no… Ma non consideri persone aride tutte le altre che non lo fanno: esse non hanno bisogno che di sé stesse per sfiorare il genio e la passione in questa vita e in noi. In questo senso, spiritualità non implica metafisica, e il materialismo non si riduce affatto all’effimero e al volgare. Piuttosto, come già detto, se di punto in bianco si ammette un non so che di oltre natura, sta a chi lo afferma di provarne l’esistenza, così come di provare che il discernimento necessario a farlo sia diverso e più valido di come invece appare: un rassegnare la propria coscienza ad una qualsiasi di mille religioni, per motivi che noi umani stessi siamo da sempre bravi a creare.
Ciò che manca agli atei umanisti non è l’esperienza di ciò che poeticamente chiamiamo anima, né la fascinazione per i misteri del cosmo, ma la loro interpretazione di fede. Forse non sembrerebbe tanto strano al credente, se non fosse così preso e così distratto da quell’idea di dio a cui rimette ogni merito, chissà perché.

«Ok, ma se sei ateo/a, che ti frega di parlare di religione? Lascia in pace chi crede, no?». Come atei potremmo farlo, ma come persone dai valori umanisti no.
Da ateo umanista sono il primo a ‘lasciare in pace’ chi crede, ma non voglio farlo se (e solo se) il suo credo invade i miei spazi, e se penso sia di danno per qualcuno o qualcosa. Quando mai? Purtroppo spesso! Ad esempio intendo sostenere la laicità dello Stato, garanzia per atei e credenti, che pure oggi viene messa duramente alla prova. Voglio difendere la dignità della mia visione di vita, malintesa e maledetta di continuo dalla gerarchia cattolica e da tanti credenti fondamentalisti, cristiani e non. Mi rattristo per i miei cari, se vivono la fede come una palla al piede (al cuore!), e desidero aiutarli a liberarsene. Ritengo un ostacolo alla realizzazione di sé che per fede si rinunci alla propria opinione, si opprimano i propri sentimenti, si accetti un’etica morbosa, si smetta di ragionare bene, e mi impegno affinché non accada. Trovo dannose l’ignoranza e la superstizione; tristi e pericolose l’intransigenza e la mancanza di empatia; problematico che si insegni che siamo cattivi, che il corpo o la sessualità siano negative, che un dio vada coccolato più di noi e obbedito alla cieca; ingiusto che la libertà, le facoltà e i diritti di alcuni siano moderati per ragioni pretenziose e sciocche, e per altri diventino invece degli ovvi privilegi; miserevole, che questo lento processo di impoverimento cominci dall’infanzia. Vedo nei rapporti di potere un pericolo per il nostro benessere. Mi interessa il nostro presente e il futuro, e mi preoccupo sapendo che facciamo errori macroscopici quando già esistono soluzioni e strategie migliori. Tutto questo mi spinge, e spinge tanti umanisti nel mondo, all’azione. A parlare, discutere, proporre, contrastare se necessario, risolvere dove possibile, costruire del nuovo, unire le forze, fare del bene. Certo, è la visione di ‘bene’ di un ateo umanista, ma credo e spero che – su questi stessi punti – non possa essere tanto lontana da quella di una fede che si voglia gentile, nei fatti come a parole, e che essa non biasimi ma appoggi e si unisca alla contestazione di qualsiasi dottrina – seppur religiosa – che invece su questo si fondi e speculi.

E se qualcuno allora se ne uscisse proprio con un: «Questo è essere nemici del Cristianesimo!»? Beh, con quel tizio non ci saremmo capiti ancora. Il cristianesimo, come ogni altra religione o ideologia o filosofia, non è al di sopra di critica: esso, nella sua pluralità di correnti e interpretazioni, contiene una serie di errori che un’indagine ragionata e aperta semplicemente mette in luce. E sì, si può essere nemici di quegli errori. È anzi una responsabilità di tutti, quella di scovarli e farli vedere, per scongiurarne i continui danni e trovarvi pacifica soluzione.
Una idea non va difesa per sé stessa, ma per la sua grandezza in relazione a noi che la usiamo. Una dottrina veramente perfetta passerebbe a pieni voti qualsiasi esame, non ti pare?
Sarebbe poi un errore concludere che, siccome si criticano alcuni aspetti di una religione, allora si pensi che in essa non c’è niente di vero, che non può trasmettere alcun valore positivo, o ancora che è la radice di tutti i mali. Questo è falso, una generalizzazione immeritata, e dunque fare di chi crede un ‘nemico’ a priori sarebbe malevolo e triviale, come dovrebbe arrivare a capire il Papa quando parla dell’ateismo e del suo umanesimo. Un errore, così come l’idea che si debba vietare la possibilità di credere o abolire il diritto a farlo. Ci fosse di nuovo bisogno di dirlo, non sono le tesi di questo libro, né dell’ateismo in generale. Piuttosto, questo Piccolo manuale afferma che abbiamo diritto a scegliere maturi e liberi, che non c’è vergogna né colpa in questo, e informa su una visione positiva del mondo che l’ateismo umanista sostiene, e certa religione invece no.

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Immagina un papà che dica «Dolce figlio mio, ho desiderato che nascessi e averti intorno per me è gioia e onore. Mi impegno a rispettarti come rispetto me stesso, a proteggerti, ad insegnarti quello che so, e a fare del mio meglio in tutto questo… credo siano le cose migliori che posso fare per te, ora. Poi, sarai tu a costruire la tua felicità, secondo come avrai deciso di vedere il mondo, accada quel che accada. In cambio, non mi devi nulla, e ogni cosa che vorrai fare per me la considererò un dono. Nella nostra famiglia ci sono poche regole: le abbiamo create sulla base del rispetto reciproco, valgono per tutti, e servono a facilitare la nostra vita insieme. Ti chiedo di accettarle, ma sappi che sono modificabili, che nel migliorarle il tuo parere conta come il nostro, e che un giorno, se vorrai, potrai rifiutarle e crearne di tue.
Sappi che credo in te, sei un essere meraviglioso, e anche quando le nostre strade si divideranno io ti sarò accanto, fino al giorno della mia morte. Ti voglio bene!».
Non sarà la perfezione, ma mi pare molto più degno di un Genitore.
Che ne pensi?